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LA CORTE E LA FILOSOFIA – Agostino Steffani’s “Marco Aurelio” – By Luca Casagrande

M. Rostovzev, uno dei massimi studiosi del mondo antico, traccia nel suo Storia economica e sociale dell’Impero Romano un quadro molto accurato delle condizioni economiche dell’Impero Romano nell’età degli Antonini, attestanti un grado di benessere mai raggiunto prima d’allora. Rostovzev deduce tuttavia dalle antiche fonti, conclusioni molto ottimistiche sulla vita politica e culturale del tempo. La realtà storica non giustifica quest’ottimismo. Gli imperatori Adriano e Marco Aurelio, sono uomini “dissociati”: l’inquietudine di Marco Aurelio è una spia dell’incertezza dei tempi, la cui ragione principale potrebbe consistere nel mancato adeguamento della vita culturale (e spirituale) alle condizioni di benessere e di prosperità economica istauratesi quasi bruscamente con Adriano. La cultura, il mondo intellettuale e filosofico dell’Impero del II secolo d. C. sembrano aver compiuto passi indietro, rispetto al secolo precedente. Non esiste più un’opposizione di filosofi al principe e gli
intellettuali sono organici ormai al sistema, abdicando alla loro funzione di stimolo, pungolo e critica, che mira ad elaborare nuove basi per la vita morale. Se Seneca, Traseo Peto, Elvidio Prisco, Musonio Rufo ed Epitteto hanno incarnato l’inquietudine della coscienza nel I secolo, ora Dione Crisostomo,
Favorino, Elio Aristide, Erode Attico o Frontone (maestro di Marco Aurelio), si profondono in celebrazioni acritiche della monarchia, teorizzano sulla potenza militare dell’imperatore, cantano la sublime eccellenza di Roma, si chiudono in interessi municipali, o professano una fanatica fede nella retorica. Certo, il II secolo conosce la serietà scientifica di Galeno, lo spirito politico corrosivo di Luciano o quello imprevedibile di Apuleio. Ma se stiamo ad Epitteto, il compito preminente dell’umanità sta nel saper distinguere ciò che dipende dall’uomo da ciò che da egli non dipende e nel preoccuparsi solo di ciò che è in suo potere. Sulla base di questo criterio Epitteto distingue realtà
apparente da realtà sostanziale. Per esempio, vi sono una pace esteriore su cui il potere dell’imperatore si può estendere e una, interiore, su cui egli nulla può. Questo è il pensiero di Marco Aurelio: l’intellettuale si isola dallo Stato, toglie valore alla funzione dello Stato, di conseguenza la funzione sociale dell’intellettuale è trascurata. L’opposizione è quella tra vita pubblica, intesa quale collaborazione all’organizzazione statale, e vita filosofica, con un netto disprezzo per la carriera politica. La gioventù educata a questi principi è tutt’altro che equilibrata, sicura di sé e padrona delle
circostanze: per tutto il II secolo abbondano le testimonianze di sempre crescenti inquietudine, incertezza, squilibrio, angoscia. Gli spiriti più illuminati del II secolo non sono in grado, con le loro riflessioni, di suggerire alcuna soluzione per armonizzare la vita privata e la vita pubblica,
le esigenze individuali e gli interessi sociali, l’uomo con il suddito. Elio Aristide scrive dell’Impero del II secolo come del regno della felicità completa, della giustizia sicura, della soddisfazione. Certo, quelle delle classi abbienti, degli archontes, gli individui destinati a governare o a partecipare al potere, in contrapposizione a coloro che sono destinati solo ad obbedire, gli archòmenoi. “Gli intellettuali si riducono, infine, a celebratori dell’ordine costituito, ad esaltatori dell’Uno solo che comanda, ad ammiratori della disciplina pronta, cieca ed assoluta dei sudditi: per ciò stesso quella
forma di cultura di cui sono portatori è votata alla fine.” (I. Lana – A. Fellin). Giovenale scrive che la feccia romana vuole solo panem et circenses, Aristide non fa mai alcun cenno ad una vita culturale delle classi abbienti. Luciano stesso, pur denigrando l’ordine costituito, non vede nulla all’infuori di questo. Aristide, ancora, si dilunga nell’esaltare la disciplina dei sudditi, tema già molto caro all’imperatore Adriano, che di quest’appiattimento sconfortante è il primo e principale fautore – ad onta della pur straordinaria, più dal dal punto di vista letterario che da quello storico, interpretazione intimistica e romantica della figura di questo imperatore, cara a Lord Byron, e poi a Huysmans, a Wilde e infine a Marguerite Yourcenar nei suoi Memoires d’Hadrien. In realtà, l’Impero Romano del II secolo è un mondo stretto d’assedio, difeso da valli, limites e truppe agguerritissime e costretto a fare sempre più ampie concessioni alle popolazioni che premono di là dai suoi confini. “Andando a fondo in questa
direzione, cioè approfondendo la nostra conoscenza del grado di benessere economico dell’età degli Antonini e, parallelamente, del rifiuto di accettare una visione problematica del mondo nelle varie forme in cui si manifesta, noi siamo in grado di comprendere l’impoverimento spirituale delle classi colte e la loro incapacità di elaborare una visione del mondo adeguata al grado di progresso materiale raggiunto. Per questa via si comprende lo sviluppo della superstizione nelle sue varie forme, la demonizzazione del paganesimo e lo sviluppo dei culti misterici: sono tutti tentativi di risolvere il problema di fondo, che questa società trova inesorabilmente di fronte a sé; tentativi, in quella concreta situazione storica, di rifiutare la risposta del Cristianesimo.” (I. Lana – A. Fellin).
Già Adriano è di personalità complessa, eccessiva e misurata al tempo stesso, imprudente ed accorta,
impulsiva e saggia, clemente e crudele. L’imperatore è imprevedibile ed interiormente lacerato. “Da qualunque punto di vista lo consideriamo, lo troviamo in contraddizione con se stesso. E’, fondamentalmente, la medesima contraddizione e intima insoddisfazione che constatiamo poi in Marco Aurelio.” (I. Lana – A. Fellin). Adriano adotta il 25 febbraio 138 d. C. Antonino Pio, l’“Imperatore filosofo”, cui impone di adottare Annio Vero, che prende il nome di Marco Aurelio Vero Cesare.
Marco Aurelio aderisce alle dottrine ciniche e stoiche, sulla scia dei maestri della Nuova Sofistica, le
cui radici si rinvengono nell’opera di Dione Crisostomo (già morto sotto Traiano, ma maestro dei letterati dell’età degli Antonini). Ma lo stesso Dione Crisostomo finisce per tracciare un quadro grazioso fino all’affettazione della natura, in contrapposizione alla città come regno della purità e dell’innocenza al regno della prepotenza e del sopruso. Non v’è traccia di una presa di posizione consapevole di fronte ai problemi della realtà politica, sociale e culturale in senso proprio. Vi è invece una visione falsa della natura, regno del grazioso, appunto, del tenero, del morbido, che diventa fuga dalla realtà per incapacità di accoglierla, come si rileva anche dalle opere dei poetae novelli, fioriti dopo Adriano. L’esempio del poeta Anniano, riportato da Aulo Gellio, che invita in campagna gli amici per la vendemmia, ed offre loro ostriche, condendo il tutto con erudite riflessioni e citazioni, rivela un comportamento urtante e lezioso da parte di questi intellettuali che discutono di futilità. Per loro la vendemmia è il pretesto per sciorinare un’erudizione che non serve a vivere, per ostentare personalità fittizie. Marco Aurelio non si sottrae a questo gusto per il bamboleggiamento, per il chiacchiericcio inconcludente, come dimostra il suo carteggio con Frontone. Basterebbe la lettura di una sola delle lettere di Marco Aurelio a Frontone per distruggere il mito romantico del giovane e
austero futuro imperatore, tutto dedito alla filosofia. Anzi, nel sunnominato carteggio colpisce in Marco Aurelio l’assoluta incapacità di apprezzare la realtà naturale, di vivere con serietà, con autenticità non solo la vita nella natura, ma la vita tout court, e una mancanza di rispetto per chi effettivamente vive e suda tutta la vita nei campi, una noncuranza ed un’indifferenza per gli umili, trastullo al più per le classi elevate, che dalle loro umiliazioni e dalla loro sofferenza traggono
motivo di divertimento. “Qui, in questi atteggiamenti è la radice dell’incomprensione profonda di Marco Aurelio imperatore per la religione nuova del cristianesimo – che in ogni uomo vede un figlio di Dio – e per i cristiani – pronti a morire per salvare davanti all’imperatore la loro dignità di figli
di Dio.” (I. Lana – A. Fellin).
Marco Aurelio è però anche l’autore dei Pensieri a se stesso, che testimoniano quanto egli abbia lavorato su di sé per migliorarsi, che ha accettato di essere imperatore per compiere una missione di bene a favore di tutti. “Egli proclama con accento sofferto, e ripetutamente, il suo distacco dagli onori e dalla potenza, il suo fastidio per tutto ciò che è apparenza, si richiama continuamente al senso del dovere e alla tolleranza. Nello stesso tempo egli ha coscienza della pochezza e della caducità della vita e dell’opera dell’uomo, della vanità della storia, dell’eterno ripetersi di tutte le cose.
La sua vita è una continua lotta per rafforzare l’ideale di vita filosofica in un ambiente ad essa inadatto.” (I. Lana – A. Fellin), sull’esempio del padre adottivo Antonino Pio: “Guarda di non ‘cesarizzarti’ appieno; non impregnarti di tale spirito (cosa che troppo spesso avviene!). E perciò custodisci te stesso e conservati semplice, buono, sincero, grave, senza mai fronzoli, amico della giustizia, pio, benevolo, affettuoso, irremovibile nel compimento dei tuoi doveri. Combatti sempre per rimanere tale quale ti volle far essere la filosofia.” (M. Aurelio). Con estrema lucidità egli giudica la sua condizione di uomo “dissociato” quando scrive: “Se tu avessi ad un tempo una matrigna ed una madre, adempiresti certo i tuoi doveri verso la prima, ma pure continuamente ritorneresti alla seconda. E questo rappresentano, ora, per te, la corte e la filosofia: ritorna spesso a questa, riposati in questa, che renderà sopportabile a te le faccende della corte e renderà te sopportabile in esse.” (M. Aurelio).
“I Pensieri a se stesso di Marco Aurelio testimoniano la impossibilità, per l’intellettuale romano, di armonizzare la sua vita ‘privata’ di uomo con l’assunzione di responsabilità nel campo della vita associata. Messi di fronte a questa constatazione, ancora una volta non possiamo non ripensare al tentativo di Seneca, di immettere gli intellettuali in quanto intellettuali nel governo dello Stato: rispetto a Seneca Marco Aurelio fa un passo indietro, perché nelle sue meditazioni non si pone neppure il problema dell’unificazione della sua personalità. In verità il pensiero classico nelle sue determinazioni storiche, curandosi essenzialmente dell’individuo e della sua felicità, sul piano politico non può non portare alla effettiva negazione dello Stato considerato come un non-valore, puntando o sul superamento di esso (cosmopolitismo stoico) o sulla sua radicale condanna (ritorno cinico ad un
ipotetico stato di natura). La vita tormentata dell’imperatore filosofo mostra come egli, che pur fu capace di mettere al mondo non meno di dodici figli, fosse prigioniero del suo ideale umanistico, che voleva essere una sintesi di tutta la tradizione antica, senza tuttavia riuscire a viverlo nella sua realtà
di principe e signore del mondo.” (I. Lana – A. Fellin). Dal filosofo peripatetico Claudio Severo, uno dei suoi precettori, Marco Aurelio impara “l’amore della famiglia, della verità, della giustizia, l’aver conosciuto, per suo mezzo, Trasea, Elvidio, Catone, Dione, Bruto (i grandi oppositori di spirito repubblicano a Cesare e agli imperatori. N. d. R.); l’essermi formato il concetto di uno stato democratico, governato a norma dell’uguaglianza di tutti e dell’uguale diritto di tutti alla parola; d’un impero che rispettasse più d’ogni altra cosa la libertà dei governati.” (Marco Aurelio). E tuttavia
durante il suo impero il principe è sempre più legibus solutus e si consolida vieppiù il principio in base al quale quod principi placuit legis habet vigorem, al punto che lo storico Lucio Pareti distingue nettamente in Marco Aurelio il filosofo dall’imperatore e dell’imperatore sottolinea altrettanto
nettamente i limiti e le gravi responsabilità nell’impostazione errata della politica generale. “In altre parole, i princípi in cui credeva come filosofo non risulta che lo abbiano veramente guidato nella determinazione giuridica e costituzionale dei suoi rapporti con i sudditi: nel campo legislativo si curò
piuttosto di rinvigorire quanto avevano deliberato i suoi predecessori che d’introdurre innovazioni […] L’imperatore filosofo in fatto di uguaglianza in generale, non tentò di applicare alla vita pubblica le convinzioni che governavano la sua vita privata: eppure egli sentiva dolorosamente nella vita
di tutti i giorni il peso della sua personalità dissociata.” (I. Lana – A.Fellin).

MARCO AURELIO
Drama per Musica da rappresentarsi alla Serenissima Altezza Elettorale
di Massimiliano Emanuele
Duca dell’una e l’altra Baviera e del Palatinato Superiore
Elettore del Sac. Rom. Imp.
Conte Palatino del Reno
Landgravio di Leüchtemberg etc.
Nel Carnevale del MDCLXXXI
Posto in Musica dal S. D. Agostino Steffani Direttore della Musica di Cam. Di S. A. E.
In Monaco per Giovanni Jecklino Stampatore Elettorale.

La figura di Marco Aurelio è ripresa da Agostino Steffani e dal fratello Ventura Terzago, autore del
libretto, con ideale attenzione alla figura storica, e al contesto in cui si muoveva, quali sono percepiti verso la fine del XVII secolo. Certo, le convenzioni teatrali dell’epoca s’incaricano di modificare la visione storica.
Questi i termini con i quali, a proposito del melodramma Marco Aurelio, Terzago si rivolge a Massimiliano di Baviera, nella Dedicatoria del libretto, nella quale ovviamente si compara la figura dell’imperatore romano a quella del Duca di Baviera: “Eccole in un Drama quel Marco Aurelio che sul trono di Roma stampò l’idea d’un savissimo e giustissimo principe, quale risplende, appunto, V. A. E. oggidì alla Baviera fortunata che bacia il freno soave retto da mano così saggia e clemente.”. Terzago prosegue tratteggiando i caratteri del suo Marco Aurelio: “Spiacemi che non troverà qui V. A. E. Marco
Aurelio quale io avrei veramente devuto figurarlo per renderlo degno, com’egli è peraltro, del suo benignissimo sguardo; mà si condoni questo difetto allo svasamento poetico ed alla bizzarria della scena, che cerca oggidì dalla varietà gli ornamenti, ne sembra saper far bene che errando.”. Dunque, se il personaggio non corrisponde in tutto e per tutto alla storia, è per via delle convenzioni teatrali di moda, che impongono al librettista di divertire il pubblico con invenzioni e di sbizzarrire la propria fantasia per meravigliarlo, come peraltro esige la poetica dell’epoca barocca. Ciò che in certo grado
stupisce, in queste parole, è il fatto che Terzago, e presumibilmente anche Steffani, si pieghino molto malvolentieri alle convenzioni teatrali dell’epoca, tanto da sentirsi in dovere di dichiarare che ben diverso sarebbe il loro Marco Aurelio, se non ci fosse l’obbligo di osservare dette convenzioni, e di giustificarne pubblicamente ed ufficialmente il ricorso. Terzago conclude, con un certo tono di disprezzo: “La fama di un gran Monarca assicurata da tante gravissime istorie non può esser offesa da una penna bugiarda, che s’apprende solo a ciò che diletta, primo fine di un simile componimento […]”. Evidente il riferimento al razionalismo del Muratori, di Benedetto Marcello, ma anche di compositori come Alessandro Scarlatti, o lo stesso Agostino Steffani, e non solo, che interessa già la produzione melodrammatica dell’ultimo ventennio del XVII secolo, che propugna ideali di sobrietà e verosimiglianza nell’azione scenica, e si propone di “sbandire” gli abusi che funestano il melodramma, pur all’interno dell’estetica barocca e dell’ideale arcadico. Interessante anche la nota di Terzago al lettore del libretto: “Marco Aurelio, che vanta la sua prima origine infin da Numa, fu per via d’adozione portato da Antonino Pio sul soglio di Roma ove sparse tanto lume di sapere e prodezza che fu con giusta ragione ammirato come un Sole tra i Monarchi di que’ tempi. Ma perche anche il Sole ha le
sue macchie, una benche piccola e degna di molta scusa gli ne fu ascritta nell’amore strabocchevole ch’egli portò alla moglie Faustina (ciò che emerge, tra l’altro, dal carteggio tra Marco Aurelio e Frontone. N. d. R.), la quale accopiando all’estremità della bellezza quella della lascivia convertì in vizio
la pazienza ch’è una virtù, nell’animo augusto del marito amante. Sopra questo punto verserà il principal soggetto del drama, a cui porge più abbondante materia.”. Dunque, pur contestualizzati in ambito storico, i protagonisti del melodramma sono un Marco Aurelio amante appassionato e infelice, pronto alla sopportazione, e una Faustina bella, appassionata, ma quantomeno ambigua.
Insomma, si narra delle vicende private di personaggi storici: “Che per decreto d’Adriano, a cui successe Antonino, dovesse Faustina esser moglie di Lucio Vero, fratello adottivo di Marco Aurelio e che Marco Aurelio dovesse sposarsi alla sorella di Lucio Vero. Il che non essendo poi seguito e pewr la tenera età in cui trovasi Lucio Vero e la di sua Sorella (Domizia. N. d. R.) allora che Antonino desiderò maritar Faustina e Marc’Aurelio e per le ragioni, che non facendo al caso si rimettono all’Istoria, Lucio sposò finalmente Lucilla, figliola di Marco Aurelio e Faustina.”. La fonte dichiarata cui Terzago fa
riferimento è la Vita Adriani, Aelii Veri, Antonini Pii, Marci Aurelii Antonini Philosophi, et Lucii Celonii Aelii Commodi di Giulio Capitolino ed Elio Spartiano. Si tratta dell’ Historia Augusta, una raccolta di
biografie di imperatori, che non sappiamo esattamente dire cosa rappresentasse per il pubblico colto del IV secolo d. C.: “Quasi tutto è misterioso in quest’opera: chi ne sia l’autore e se si tratti di uno o più autori; quando precisamente sia stata scritta; se quale ci è giunta rappresenti la redazione originaria o non piuttosto un’edizione riveduta; che cosa essa si proponga.” (I. Lana – A. Fellin). Tuttavia un fatto emerge chiaramente da questa fonte: essa è l’espressione di un’intellettualità pagana che chiude gli occhi di fronte alla realtà del Cristianesimo, di una classe sociale che crede ancora nel Senato come forza politica “che si fascia di sogni, tra i quali spicca la speranza della pace universale, dell’abolizione degli eserciti, dell’eliminazione di tutte le tasse.” (I. Lana – A- Fellin). In particolare, la
Vita di Marco Aurelio di Giulio Capitolino, ci appare oggi esprimere l’incapacità dell’autore di concepire e rivivere in termini concretamente politici e umani la personalità del grande imperatore. Se questo limite, quest’incapacità fossero già chiari agli intellettuali sul finire del Seicento non pare chiaro, ma è possibile ipotizzare che l’interesse di Steffani per Marco Aurelio e il suo tempo risponda alla natura stessa del compositore, che esprime, ad esempio, in una lettera al fratello, Ventura Terzago, il proprio disprezzo per la vacuità della vita delle corti del proprio tempo (Steffani è uomo di corte), e, al tempo stesso, il proprio amore per la filosofia, come peraltro attestano i rapporti epistolari e d’amicizia tra il
compositore e Leibniz. Terzago continua affermando di aver aggiunto ai fondamenti storici del melodramma alcuni fatti verosimili: “Che Lucio Vero impresso della prima speranza che Faustina le fosse da Adriano destinata in sposa, ne viva appassionato amante, e per ciò non possa inclinar a
Lucilla nodrita da Marco Aurelio in campagna sotto abito di pastorella per darle un’educazione lontana al possibile dalle astuzie di Corte. Che Domizia, sorella di Lucio Vero, che pure dallo stesso Adriano era destinata a Marco Aurelio, sdegnata di vederlo sposato a Faustina prendesse da Roma la fuga senza che se ne fosse mai potuto aver traccia (in vesti maschili, quelle di Silvio. N. d. R.) e con ciò lasciasse estremamente afflitto Vettillo Patrizio romano che n’ardeva d’un amore estremo. Questo con quel più che dimostrare l’intreccio medesimo forma il Drama cui porge il nome Marco Aurelio.”. Ed ecco data per sommi capi la trama dell’opera, la prima di Steffani, rappresentata il 12-13 febbraio 1681 a München, che vede come “Intervenienti” ben undici personaggi, che si articola in un Prologo e tre Atti, che rappresenta diverse “Azioni estraordinarie della Scena”, vale a dire colpi di teatro spettacolari e d’effetto, quali sortilegi, un terremoto, danze e voli e cadute di spiriti, un’eruzione vulcanica, e svariate “Machine” sceniche perfettamente in linea con l’esigenza d’effetti, tipica dell’estetica di un teatro barocco già evoluto, ma ancora legato, per certi versi, a stereotipi precedenti. Infine, i balletti, uno per Atto, di Oliviero Vigasio, “Maestro di Ballo del Serenissimo Elettore nell’Università d’Ingolstadio”: balli di pastori, ninfe, satiri, spiriti e gladiatori.

Luca Casagrande – 2012

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