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Concerto Castello di Cles

Milano, 21 luglio 2008 – Luca Casagrande non cantava più in Italia, e in Trentino, dal 2002. A buona ragione, possiamo affermare che al baritono non interessava più non tanto cantare per il pubblico italiano, sempre più che numeroso, e ai suoi concerti, e in teatro, quanto dover trattare con istituzioni pubbliche e private prive di ogni barlume di buonsenso nell’amministrare la musica. Questo vale sia per l’intero territorio nazionale, sia soprattutto per la città natale di questo artista sperimentatore, Trento. Però, ora, grazie alla lungimiranza degli amministratori del Comune di Cles (Trento), è stata data al baritono l’occasione di ripresentarsi in Italia, in un concerto molto impegnativo, ma di grande presa sul pubblico: le vicende e i significati della cantata barocca. Il luogo: il bellissimo portico quattrocentesco del Palazzo dei Baroni De Cles, a Cles, appunto. Un concerto, lo scriviamo subito, affollatissimo di un pubblico non certo di abituées del repertorio barocco (anche se intenditori e specialisti non mancavano), o di fans di Casagrande, che ha mostrato come potersi felicemente muovere fuori dalle pastoie di certe pubbliche istituzioni comunali e provinciali trentine che lo hanno in uggia. Alla loro faccia, il concerto è stato un autentico trionfo. Esiste un video che “ suona ” e mostra tutto molto chiaramente, per chi ne fosse interessato.

Alla metà del Cinquecento l’Europa è divisa in due dalla Riforma protestante. Le cause del rapido declino delle posizioni della Chiesa cattolica sono da rintracciarsi nel desiderio umanistico della borghesia e dell’aristocrazia di rompere con la tradizione tout court, anche con quella religiosa, e nella decadenza del prestigio delle due istituzioni universalistiche medievali: il Papato, appunto, e l’Impero. L’affermazione degli Stati nazionali, inoltre, contribuisce a distruggere l’unità politica dell’Europa. Crisi d’istituzioni e valori, dunque, che coinvolge anche la religione. Il clero stesso, a questo proposito, dà esempio di una condotta di vita non più accettabile o condivisibile dai più: principi-vescovi, che dedicano le cure maggiori all’amministrazione dei propri domini, più che all’attività pastorale, alti prelati di nobile casato che antepongono la politica familiare al buon funzionamento della propria diocesi, che si circondano di corti fastose, che rivaleggiano in ostentazione e in eccessi con le corti laiche del tempo, relegando le preoccupazioni religiose all’ultimo posto. Il Papa stesso, già da secoli, si considera prima di tutto un sovrano secolare: guerre, alleanze, intrighi politici ed affari economici, nepotismo lo occupano più della sua funzione di pastore d’anime. Insomma, l’interesse per le cose mondane ha portato i vertici delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche a trascurare i fondamentali valori del cattolicesimo stesso. Il clero più basso è disorientato: rozzo, avido e mal preparato, sfrutta l’amministrazione dei sacramenti e le pratiche cultuali per il proprio guadagno materiale. I fedeli s’incamminano di buon passo verso forme di religiosità superstiziosa, che li porta a pensare di poter comprare, commerciare e contrattare l’assoluzione dai peccati, le indulgenze e le grazie. Ovviamente, la riforma luterana si afferma anche per ragioni politiche: i molti principi tedeschi che aderiscono alla Riforma, ad esempio, lo fanno per sottrarsi al potere dell’Impero, molti sovrani di Stati nazionali utilizzano il particolarismo religioso per il rafforzamento di quello politico. La Controriforma è l’insieme delle vere e proprie azioni della Chiesa di Roma per contrastare efficacemente l’affermarsi e il diffondersi del luteranesimo. Con Papa Paolo III s’impone l’esigenza di riformare anche la Curia romana, che resiste tenacemente all’idea di perdere i propri privilegi. Il Memoriale fatto redigere, a questo scopo, da Paolo III, dev’essere approvato da un concilio. Il Concilio di Trento, appunto, che si apre nel 1545 e si chiude nel 1563, che compie realmente una grande mole di lavoro in materia di fede e si occupa anche di questioni disciplinari ed organizzative. Il Concilio tridentino è anche la realizzazione pratica delle aspirazioni alla centralizzazione, al ridimensionamento dei poteri e delle autonomie dei vescovi, che Roma persegue già da tempo. Grande peso ed importanza assume ovviamente la riforma liturgica. Nei fatti, il cattolicesimo segna una ripresa rimarchevole proprio in seguito al Concilio di Trento. Basti qui ricordare la vittoria della cristianità contro i Turchi a Lepanto, nel 1571, che segna una svolta epocale e la riconquista cattolica di territori considerati irrimediabilmente perduti.
Sul piano artistico, quest’epoca e questi fatti segnano la nascita del Barocco.

I prelati del Concilio di Trento incaricano Pierluigi da Palestrina e Annibale Zoilo di rivedere il “ Graduale ” gregoriano per eliminarne barbarismi, impurità e superfluità. La riforma del canto gregoriano non si farà mai, in realtà, ma gli effetti di queste intenzioni sulla musica polifonica sacra sono più che avvertibili: si deve combattere l’ingresso nella liturgia di temi e parole profani e rendere percepibile il testo sacro da parte di tutti. Il Cardinale Pallavicino, nella “ Istoria del Concilio di Trento ” scrive: “ si trattò ancora di bandire affatto da’ sacrificii la musica; ma i più, e massimamente gli spagnuoli, ve la commendarono, si come usata da la chiesa per antichissimi tempi, et acconcio istrumento ad infonder per dolce modo negli animi i sensi della pietà; ove e il tenore del canto e il significato delle parole sia divoto; e quello aiuti e non impedisca l’intendimento di queste ”.

Accanto alla produzione sacra, nel corso del XVI secolo fiorisce il madrigale, polifonico innanzitutto, che esprime la lirica amorosa, le pene e le gioie d’amore, cui la natura collabora con un non trascurabile apporto paesaggistico, “ e la mitologia dà una mano con esempi e precedenti illustri ” (G. Confalonieri). I versi sono eleganti, il periodare classico. Lo scopo di questa nuova concezione della musica e del canto è “l’oggetto più alto dell’arte: dar vita ad una realtà autonoma che trascenda ogni realtà sensibile, ed è raggiunto dal Madrigale cinquecentesco con straordinaria naturalezza, per la strada più breve, per impiego delle più vere energie musicali. In così puro slancio creativo il vero e il falso sono concetti privi di senso. Quando un madrigalista canta di morire, egli realmente piega i suoni alla morte; e se canta di piangere, egli realmente stilla dai suoi suoni le lagrime. Fedeltà impossibili e impossibili tradimenti; tutti i dolci assurdi destinati a vivere nel segreto, qui, nei Madrigali italiani del Cinquecento, si fanno coraggio, e forti della loro verità musicale, s’impongono come cose viventi. ”. Confalonieri traccia implicitamente quelli che saranno, nell’ultimo ventennio del Cinquecento e per tutto il Seicento, i caratteri della monodia accompagnata, sia essa madrigale o aria, e della cantata.

Nel concerto del 19 luglio 2008, a Cles si cercherà di mettere a fuoco lo spirito della musica profana di questo periodo storico, e le conseguenze dei dettami in materia di musica sacra del Concilio tridentino sulla produzione di musica profana. Più in generale, sul clima culturale post-conciliare, che caratterizzerà tutto il XVII secolo. Inoltre, si vuole porre attenzione al delicato momento di passaggio dal madrigale all’aria, e con l’affermarsi dell’aria, alla cantata. Il baritono Luca Casagrande sarà accompagnato al clavicembalo dal Maestro Filippo Emanuele Ravizza e i testi cantati si alterneranno a testi del periodo conciliare, letti dalla voce recitante di Alessandro Haber.

I precetti della Controriforma circa lo sfoltimento del contrappunto, ai fini della piena comprensione del testo cantato, l’interesse del fiorentino Giovanni Bardi, Conte di Vernio, per la cultura e la musica elleniche del periodo classico, e le ricerche acustiche di Vincenzo Galilei portano all’affermarsi del cosiddetto “ recitar cantando” che, perlomeno nei primissimi tempi, si propone di reintrodurre i modi, i ritmi e le cadenze della tragedia greca, il cui canto a voce sola sembra l’ideale per la comunicazione delle emozioni e dei sentimenti. Protagonisti di questo recupero del classico sono principalmente Giulio Caccini (Tivoli, 1550 ca. – Firenze, 1618), compositore, cantante, teorico, dal 1564 musico alla corte di Firenze, e Jacopo Peri (Roma, 1561 – Firenze 1633), cantante e compositore anch’egli, dal 1589, “ principale direttore della musica e dei musici ” alla corte medicea; ma anche Emilio de’ Cavalieri, Laura Guidiccioni e poeti come Ottavio Rinuccini e Gabriello Chiabrera. Merito di Caccini è di aver contribuito a che il recitar cantando si affermi come genere proprio, e d’averlo portato verso soluzioni liriche annunciatrici del “ belcanto ”. Questo non solo con i suoi melodrammi, ma anche, e soprattutto con le “Nuove musiche”, del 1602, e, poi, con le “ Nuove musiche e nuova maniera di scriverle ”, del 1614, che rappresentano un’ulteriore teorizzazione dello stile monodico. La posizione di Caccini è quella di un innovatore. Lo stesso si può dire di Jacopo Peri, che dichiara nell’Introduzione alla sua “Euridice”, del 1601, che il nuovo stile di canto rinnova il felice incontro tra musica e poesia, già proprio della tragedia greca, così com’esso era inteso dagli umanisti della Camerata fiorentina. Caccini e Peri si dedicano alla scrittura di musiche vocali ariose, in cui la linea del canto solo è ben configurata e predominante, esprimendo nel contempo un sostanziale rifiuto per i virtuosismi che non abbiano senso espressivo, che siano, cioè, fini a se stessi. Il “ belcanto ”, con la sua coordinazione tra parole e musica, le sue scorrevoli melodie, le sue armonie sostanzialmente semplici e i suoi ritmi di danza, sarebbe fiorito, già verso il 1630, proprio sulla base delle istanze dei due compositori. Il cantante comincia, dunque, ad accompagnarsi da sé, utilizzando per lo più il liuto, o si unisce a piccoli ensemble, la linea del basso comincia ad essere concepita come appoggio ritmico e tonale della voce. L’interprete espande in accordi l’armonia risultante dalle due parti, quella vocale e quella strumentale. L’elasticità con cui il canto si abbina al basso continuo e un nuovo tipo d’abbellimento vario e libero della battuta, che viene, soprattutto in Caccini, ad inserirsi nel canto recitato per variarlo ed arricchirlo, prende il nome di “ sprezzatura ”. Claudio Monteverdi (Cremona, 1567 – Venezia, 1643), arriva alla monodia attraverso la disintegrazione del madrigale polifonico. In “ Orfeo ”, rappresentato a Mantova a Palazzo Ducale, nel 1607, Monteverdi sperimenta il “ recitar cantando ”. È sempre nel 1607 che Giulio Cesare Monteverdi afferma, a nome e per conto del fratello Claudio, la cosiddetta “ Seconda Pratica ”, “ che considera l’armonia comandata, e non comandante, e per signora del armonia pone l’oratione ”. È di nuovo Monteverdi, poi, a sviluppare l’idea del “ parlar cantando ”.
Nel 1618 è pubblicato il penultimo canzoniere in cui tutte le monodie sono madrigali (autore, Sigismondo d’India), e il primo, in cui tutte le monodie sono arie: gli “ Affetti Amorosi ”, canzoniere che contiene arie di diversi autori, raccolte da Giovanni Stefani, veneziano. L’aria comincerà, da questo momento in poi, ad assumere un’importanza sempre maggiore, diventando gradualmente l’asse portante sia della cantata da camera, sia del melodramma. Essa andrà evolvendosi nella direzione di un distacco sempre più netto dal recitativo, che assumerà i caratteri di momento narrativo, e giungerà a strutturarsi nella forma A B A, assumendo una funzione lirica e differenziandosi in varie categorie, a seconda dei sentimenti espressi nel testo. Dunque, nasce, e presto s’imporrà come terreno di sperimentazione per tutti i più importanti compositori e poeti secenteschi, la cantata, intesa come scena lirica di genere non rappresentativo – anche se la parola “ scena ” testimonia la natura ed il carattere teatrali più che evidenti di molte cantate – per voce con accompagnamento di basso continuo ed eventualmente alcuni strumenti. Giacomo Carissimi, Alessandro Stradella e Alessandro Scarlatti sono considerati i compositori più importanti di cantate. Ma fondamentali nella storia della cantata secentesca sono Antonio Cesti, Giovanni Legrenzi, Maurizio Cazzati, Pietro Ziani, Agostino Steffani, Giovanni Battista Bassani, e molti altri, soprattutto bolognesi e veneziani.
I brani che si potranno ascoltare al concerto sono le arie “ Fere selvaggie ” e “Udite amanti” di G. Caccini, “ Se l’aura spira” di G. Frescobaldi, “ Più lieto il guardo ” e “ Perché se m’odiavi ” di C. Monteverdi, “ Sospiri di foco ” di  P. F. Caletti detto “ Il Cavalli ”,  e le cantate “ O dell’anima mia ” di A. Cesti, “ Nel mar che bagna ” di A. Scarlatti.
“ Fere selvaggio ”, tratta dalle “ Nuove musiche ” di Giulio Caccini, è, in realtà, un madrigale strofico. “ Udite amanti ”, invece, è un’aria, forse l’unica, all’interno delle “ Nuove musiche ” a rispondere al concetto ideale di aria espresso dal compositore: composizione strofica, in tempo binario o ternario, breve, leggera, vivace. “Si deve usare solo la vivezza del canto, che deve essere trasportato dall’aria stessa”. Girolamo Frescobaldi (Ferrara, 1583 – Roma, 1643), allievo di Luzzaschi, precocissimo cantore e musicista, è, già dal 1604, organista a Roma. La musica strumentale e quella vocale di Frescobaldi, nel suo complesso, segnano una svolta in tutta la musica europea, rappresentando una sintesi compiuta tra la ricca tradizione italiana e le nuove tendenze dell’epoca, una serie d’imponenti indicazioni, che saranno poi comprese e realizzate, molto più in là, da Bach. Frescobaldi adotta forme sostanzialmente tradizionali. Tuttavia, la sua inquietudine armonica, la sua capacità di sconvolgere le strutture musicali con arditezze di modernità impressionante, sono un qualcosa di più che una semplice premessa per il futuro della musica. Frecobaldi è, insomma, il tramite tra due civiltà musicali, proponendo già in sé gli sviluppi e il superamento del barocco. L’aria “ Se l’aura spira ” è un indicativo esempio dell’immediatezza caratterizzante il genere popolare dell’epoca. “ Più lieto il guardo ” e “ Perché, se m’odiavi ” rappresentano il contributo di Claudio Monteverdi ad una raccolta d’arie di vari autori, del 1634. “ Queste composizioni presentano articolazioni musicali segnate da facilismi melici e frequenti riprese di microstrutture ritmiche, in perfetto accordo con il tono anacreontico dei testi. Solo ‘ Più lieto il guardo ’ (dotato anche di un ritornello strumentale a tre che ‘ si suona inanci ogni stancia infuori che la ultima ’) oppone ad una prima parte in ritmo ternario continuo e con schemi periodici, un secondo episodio ‘ recitato ’ liberamente su un basso a valori larghi. ‘ Perché, se m’odiavi ’ intona un testo utilizzato da Monteverdi anche in una composizione a tre voci e continuo, che apparirà postuma nel ‘ Libro nono ’, mostrando evidenti affinità con quel precedente monodico. ” (P. Fabbri). Pietro Francesco Caletti Bruni (Crema, 1602 – Venezia, 1676), detto “ il Cavalli ”, per aver adottato il nome del nobile veneziano Federico Cavalli, suo protettore, entra a far parte dell’organico della cappella di S. Marco, giungendo a diventarne primo maestro. L’opera veneziana deve la sua fama europea al compositore, che compone melodrammi-capolavoro, almeno fino al 1660. Non lontano da Monteverdi, da cui ha molto imparato, il Cavalli è, infatti, soprattutto compositore di melodrammi (circa una quarantina). Di lui ci è pervenuta una quindicina d’arie a voce sola e basso continuo, tutte  manoscritte, e alcune di dubbia attribuzione: ” Sospiri di foco ” è una di queste. “ O dell’anima mia ” è una delle cantate di contenuto lirico-amoroso di Antonio Cesti (Arezzo, 1623 – Firenze, 1669), sempre caratterizzate da un alternarsi di declamati drammatici, scolpiti, allo stlie “ grazioso ” delle arie e degli ariosi. “ Nel mar che bagna ”, infine, è una delle rarissime cantate per voce maschile grave (basso o baritono) e basso continuo di A. Scarlatti (Palermo, 1660 – Napoli, 1725). La cantata riprende temi bucolici, tratteggiando le schermaglie amorose di Nice ed Elpino, due pastorelli tratti dalla mitologia classica, sullo sfondo della foce del Sebeto, fiume che sbocca nel golfo di Salerno, tra paesaggi marini e boschivi, e gare di vele. Il clima è “ arcadico ”, e propone un mondo pastorale, appunto, idealizzato, semplice e candido. Questo genere di cantata è l’espressione più matura della cantata secentesca, anche per la definizione della struttura, che vede alternarsi brevi recitativi ad arie con il “ da capo ” variato. Parallelamente, la cantata di tema morale, filosofico, storico e mitologico si sviluppa e si amplia, per conoscere la sua massima espressione nel primo trentennio del Settecento.

Ilaria Daolio

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