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- Rassegna Stampa
- 30 Giu 2008
Milano, giugno 2008. – Centaurus Music – gruppo di produttori privati indipendenti riunitisi dal 1994 sotto questa sigla – ha pubblicato in Italia, nell’estate 2007, un CD d’estremo interesse sulla cantata secentesca: “ Amore e virtù ” dal titolo dell’omonima cantata del compositore lombardo Giovanni Legrenzi. Il lavoro comprende sette cantate di Legrenzi, appunto, e quattro di Antonio Cesti. Il CD è ora pubblicato in Germania. Baritono, Luca Casagrande, al clavicembalo Filippo Emanuele Ravizza.
Giovanni Legrenzi (Clusone, 12. VIII. 1626 – Venezia, 27. V. 1690) fu uno dei protagonisti del panorama musicale del Seicento italiano ed europeo, soprattutto per quanto riguarda la musica strumentale, violinistica in particolare, e il melodramma. Come violinista, Legrenzi fu ed è considerato, con Corelli, uno dei maggiori strumentisti del suo tempo, geniale creatore di forme e di stili, che saranno poi retaggio dei suoi allievi, Lotti, Caldara, Gasparini e Gabrielli, per citarne alcuni, e caratterizzeranno la cosiddetta “ scuola veneziana ” fino a Vivaldi. Cresciuto in uno dei principali centri di produzione musicale dell’epoca, la Basilica di S. Maria Maggiore di Bergamo, il compositore di Clusone fu poi alla corte ferrarese di Ippolito Bentivoglio, dove esordì come operista, nel 1662. In seguito, fu a Venezia, dove raggiunse vera gloria con i suoi melodrammi per i teatri di S Salvatore, SS. Giovanni e Paolo e S. Luca. Primo tra tutti “ Eteocle e Polinice ” (1675), che sarebbe stato fonte primaria e modello diretto dei primi lavori teatrali di Steffani, a München. Con “ Il Giustino ” (1683), infine, Legrenzi conobbe fama europea e una fortuna straordinaria, che si sarebbe prolungata per oltre mezzo secolo.
Il genere della cantata non fu molto coltivato da Legrenzi, dal punto di vista della quantità. Ma la produzione cantatistica del compositore fiorì nel periodo musicalmente più fecondo della sua esistenza, gli intensi Anni Settanta dei grandi successi veneziani. Tra il 1676 e il 1678 Legrenzi fece pubblicare due raccolte di cantate destinate a rimanere nella storia del genere come esempi tra i più riusciti ed originali. Complessivamente, del musicista lombardo, furono date alle stampe diciassette raccolte di cantate, nel decennio 1670-1680. A noi sono giunte anche alcune cantate manoscritte, il corpus più rilevante delle quali è costituito da dodici cantate conservate a Berlino. Legrenzi non si discosta, quanto ai temi, dal genere della cantata amorosa, talvolta d’ambiente pastorale e ravvivata dall’uso di uno schema narrativo. La parte strumentale è sempre sobriamente limitata al basso continuo. L’adesione delle cantate di Legrenzi ai tòpoi della cantata secentesca, tuttavia, a ben guardare, è più apparenza che sostanza. Il compositore costruisce davanti a noi, con la sua musica, un ricco mondo d’espressioni, d’affetti, d’atteggiamenti, e si fa notare l’assenza delle convenzioni melodrammatiche: nelle cantate Legrenzi si esprime più liberamente, rispetto a quanto riesca a fare nei suoi melodrammi. Il canto è eloquente ed incisivo e il discorso musicale profondo ed elaborato. Rimandiamo ogni analisi ulteriore al bel saggio di U. Scarpetta sulla cantata legrenziana, pubblicato da Olschki, e veniamo senz’altro al CD in questione e ai suoi interpreti. Appare subito evidente che la “ parte del leone ”, in questo lavoro, è affidata senza esitazioni all’interprete vocale. Il basso continuo di Filippo Emanuele Ravizza è molto asciutto, essenziale, non si concede nulla. Tuttavia, non è assente, è sempre incisivo ed espressivo. Lo stile dell’artista milanese, sempre rigoroso, propenso alla stringatezza e all’adozione di tempi piuttosto stretti, qui, al contrario, incoraggia il canto di Luca Casagrande alla massima ampiezza di fraseggio, al maggior respiro possibile. “ Una delle ragioni per cui in questa registrazione si è scelto di privilegiare apertamente il canto ” afferma Casagrande “ Ë che i testi di queste cantate sono così importanti, la linea vocale talmente varia ed interessante, da esigere una presenza notevole della voce e un basso continuo di puro appoggio. Non solo, anche tempi più larghi di quanto ci si potrebbe aspettare ”. Quest’operazione, che lascia la voce totalmente esposta, non facilita certo le cose, per il cantante, che si trova a dover dare fondo a tutte le sue risorse in fatto di tenuta del suono. Dare prevalenza ad un canto ampio e sonoro, caratterizzato da possenti accenti tragici, ma mai stentoreo e pesante, anzi, sempre trasparente, agile, mosso, di colore rotondo e ben “ coperto ”, omogeneo, duttile e malleabile, per non compromettere e la riuscita delle agilità, sia vocalizzate, sia di sbalzo, e la calma perfezione richiesta dalle frequenti fioriture, e per non spezzare mai le forme ma esclusivamente piegarle, a fini espressivi, potendo contare sull’appoggio di un basso continuo rarefatto – tutto questo assomma ad un grado di difficoltà difficilmente immaginabile. La tecnica e la respirazione e l’emissione dell’interprete sono messe a serissima prova da un’impostazione di questo tipo, che risulta, tra l’altro, anche molto rischiosa. Insomma, una vera e propria sfida, e una potente provocazione. Casagrande, che ha sempre mostrato di saper coniugare sapientemente, nell’affrontare il repertorio cantatistico barocco, il canto espanso e le esigenze del canto melismatico, a volte miniaturizzato e vorticoso, in questo CD dà l’impressione di inspirare una sola volta, all’inizio. Crea, in altre parole, l’illusione, attraverso l’uso intelligente ed esperto del “ rubato ” e la tensione delle pause, che tutte le cantate di questo lavoro siano comprese in un unico, immenso, profondo respiro.
Tutto quanto fin qui esposto vale anche per le quattro splendide cantate di Antonio Cesti (Arezzo, 05. VIII. 1623 – Firenze, 16. X. 1669), inserite nel CD, che proseguono ed approfondiscono il discorso sul compositore aretino, affrontato per la prima volta da Casagrande in una registrazione del 2004. La scrittura di Cesti si rivela più consona alla sensibilità e alla vocalità dell’artista, rispetto a quella di Legrenzi. In questo CD, inoltre, questa consonanza è più evidente rispetto alla registrazione del 2004, grazie al raggiungimento di una maggiore maturità vocale, alla scelta di brani più adatti, e anche alla realizzazione da parte del M.° Ravizza di un basso continuo equilibrato e scevro dei protagonismi cembalistici, che infastidivano vagamente nella precedente registrazione cestiana (in cui Ravizza non compariva).
Il disco si apre con una canzonetta di Legrenzi, “ Il mio core non è con me ”, breve e semplice, ma che già dà l’idea della fluente corposità che impronta tutto il lavoro. Con “ Amore e virtù ”, il secondo brano, una cantata alquanto composita, si è catapultati in medias res. È però in “ Pene, non mi lasciate ” che Casagrande tocca il vertice e poi, di nuovo, e con maggiore intensità in “ Sorgea dal sen di Lete ”, due capolavori, tra le cantate di Legrenzi.
Le quattro cantate di Cesti sono ognuna un capo d’opera, e le interpretazioni di Casagrande e Ravizza meriterebbero un trattatello a sé. Particolarmente commovente “ O dell’anima mia ”, lirica e dolente, mentre impressionante per virtuosismo espressivo “ Per l’ampio mar d’amore ”, cantata tragica che conclude il CD in una lucida stretta.
Questo è uno dei più affascinanti lavori discografici sulla cantata barocca, che ci sia stato dato finora di ascoltare, e per il coraggio sperimentatore di chi l’ha ideato e realizzato, e per il respiro, la dovizia e la qualità dei mezzi vocali ed interpretativi dispiegati da Luca Casagrande, e per l’elegante presenza del basso continuo di Filippo Emanuele Ravizza. Anche le inevitabili imperfezioni, qualche nota non perfettamente a fuoco, qualche dissonanza inaspettata, altro non fanno che confermare il fascino di questa registrazione. Che, stavolta, non è di studio, ma realizzata in ambiente dall’acustica naturalmente privilegiata, che amplia ed ammorbidisce i suoni. L’editing, perciò, non ha richiesto grandi interventi, il che fa gioco alla “ naturalezza ” del risultato finale. Bellissima la grafica del digifile, di Reinaldo Ferro, che rappresenta la famosa scultura “ Apollo e Dafne” del Bernini.
In definitiva, un altro passo in avanti nella conoscenza di un repertorio, quello cantatistico barocco, che si fa poco, in disco e in concerto, non perché “ non tiri ”, come si usa dire, ma perché non si sa fare, e un’ulteriore dimostrazione del fatto che alcuni, pochi, e tra questi, senz’altro, due artisti come Casagrande e Ravizza, ne sanno e ne possono affrontare le difficoltà con indiscutibile competenza e con le idee chiare, facendo musica, arte, di cui tutti possiamo godere, non semplice archeologia a beneficio di pochi tromboni sedicenti “ addetti ai lavori ”.
Ilaria Daolio
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