- 1542
- Rassegna Stampa
- 03 Mag 1999
Milano – Le Sonate da Camera d’Agostino Steffani (1654-1728), o meglio, le “Sonate da Camera à Tre, Due Violini Alto e Basso” sono una delle numerose opere del compositore di Castelfranco Veneto, di cui non si è mai potuto sentire nulla, in epoca moderna, e in disco, la tiratura a stampa delle quali si sa che fu limitata a poche decide d’esemplari e ad un paio d’edizioni agli inizi del Settecento. Si sa anche, che si tratta di riduzioni cameristiche d’ouvertures, intermezzi e danze, e forse qualche aria, di melodrammi di grande successo, che Steffani compose per il teatro di Hannover, dopo la fuga risentita del Maestro dall’ingratitudine della corte di München, intorno al 1688, dopo la straordinaria esperienza di Niobe, Regina di Tebe. Le opere teatrali da cui le Sonate sono tratte appartengono al periodo compreso tra il 1689 – Henrico Leone, con cui Steffani inaugurò la sua felice stagione, appunto, a Hannover – e il 1695 – I Trionfi del Fato o Le Glorie d’Enea – alle soglie del passaggio del compositore castellano ad uffici di natura diplomatica, cui fu chiamato dall’Elettore di Hannover. Prima, infine, della composizione del melodramma che, unanime, la critica considera il più rilevante risultato della collaborazione tra Steffani e il librettista Pallavicino: Tassilone, del 1709. Segnaliamo, per inciso, che un’edizione a stampa delle Sonate, moderna, molto accurata, è stata pubblicata nel 1996, e che, nonostante l’orientamento delle annotazioni musicologiche e analitiche di Lino Pizzolato, rappresentano uno sforzo editoriale di gran valore, anche e soprattutto divulgativo, e sono un punto di riferimento imprescindibile ed autorevole, per chiunque si voglia avvicinare seriamente e correttamente ad un’interpretazione completa e criticamente documentata delle Sonate stesse.
Dato a Cesare quel ch’è di Cesare, la prima registrazione integrale delle Sonate da Camera di Steffani si deve a Luca Casagrande, che ha persuaso il Quartetto Erasmus con Isidoro Taccagni al cembalo, un interessante gruppo di Milano, ad affrontare l’ardua fatica di quest’interpretazione. Pubblicata in Germania nel marzo del 2001, questa registrazione – si tratta di un doppio compact disc – ha riscosso una meritata e stupefatta ammirazione generale, tanto che lo stesso articolo, in tempi diversi, ha fatto il giro delle più importanti testate tedesche, di genere e no. In Italia, nazione per tradizione poco ricettiva nei confronti del barocco, soprattutto di quello “vecchio stile” affidato a voci fisse e suoni stonati e sferraglianti, appannaggio di ristretti circoli snob di musicisti per caso, il CD ha ricevuto un’accoglienza meno unanimemente entusiasta: si è lodata la raffinatezza della scrittura di Steffani, d’accordo. Ma sull’intelligenza della scrittura musicale del compositore nutrono dubbi solo i disinformati. Agostino Steffani, piaccia o no, per motivi esposti con ammirevole lucidità da studiosi come Rodolfo Celletti, per primo, e Colin Timms, ricoprì, accanto ad Alessandro Scarlatti (1660-1725), ruolo di geniale innovatore, sia per quanto concerne il melodramma, sia per quanto riguarda la musica da camera. Entrambi furono le principali personalità creatrici musicali del loro tempo e diedero il via alla fase più fulgida, che il melodramma e il canto italiani avrebbero conosciuto nel corso di quattro secoli di storia. Se Steffani in particolare, in Italia, non è noto nemmeno tra gli addetti ai lavori, che lo conoscono di nome ma non ne hanno mai letto una nota, è merito anche di una certa critica oscurantista degl’Anni Sessanta del Novecento. Un nome campeggia su tutti, quello di Andrea Della Corte, che si è preso l’affanno di scrivere sull’opera di Steffani brevi saggi, uno o due, ma di così intensa stupidità da rimanere nella storia come le tirate di Beniamino Dal Fabbro sulle interpretazioni di Maria Callas. Non le riporteremo qui, perché non lo meritano, ma segnaliamo ai cultori e agl’interessati, che presso la Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, città natale di Steffani, questi saggi sono a disposizione di tutti.
Il pubblico, in Italia, ha reagito in maniera non univoca, dunque: studiosi, musicologi, semplici appassionati ne sono rimasti per lo più entusiasti. Altri, per lo più musicisti, hanno posto l’accento sull’interpretazione di taglio un po’ troppo moderno delle Sonate da parte del Quartetto Erasmus con Isidoro Taccagni al cembalo, interpretazione che non terrebbe in gran conto quelli che Carlstedt ha definito “inutili barocchismi”. E che diamine! Un po’ di sobrietà non guasta, e puntare, anziché sull’improvvisazione sboccata, sull’ agogica e sulla dinamica, non è per niente scorretto, né riprovevole. Anzi. Chi scrive è, in ogni caso, del parere che una maggior quantità di buone variazioni, per lo meno da parte dei violini, nei “da capo”, avrebbe giovato certamente alla varietà dell’interpretazione; che alcuni tagli, soprattutto nelle ouvertures, tagli tesi a rendere più spedito l’andamento d’ogni singola Sonata, si sarebbero potuti evitare proprio adottando il sistema delle variazioni. Ma il Quartetto Erasmus – Giambattista Pianezzola e Giacomo Trevisani ai violini, Ugo Martelli alla viola, Marcello Scandelli al violoncello, con l’aggiunta d’Isidoro Taccagni al cembalo – riesce a conferire ad ogni Sonata compattezza, chiarezza, pulizia e brillantezza di suono, e a renderne sempre il carattere patetico, di una malinconia e un’inquietudine profonde, dolorose, senza mai perdere in smalto. Il che può rendere il carattere dolente espresso dalle Sonate, senz’altro più attuale, e anche, inevitabilmente, più vero e lancinante.
Sulla prima parte di un lavoro sulle Cantate ad una e due voci di Agostino Steffani chi scrive si è già espressa, nel 1999, al momento dell’uscita del relativo CD, ed ora attende la realizzazione di una seconda parte, che illumini altri aspetti della geniale produzione cameristica vocale di Steffani. Tuttavia, a distanza di quasi tre anni dalla pubblicazione del CD – prodotto e interpretato da Luca Casagrande, con la collaborazione del mezzosoprano Loretta Liberato e la Direzione artistica di Nicola Cumer al cembalo, accanto ad altri interpreti ai flauti e al violoncello – chi scrive si sente in dovere d’aggiungere qualche ulteriore, breve considerazione su un lavoro che, per una serie di motivi, ha incontrato, quand’è uscito, qualche difficoltà di comprensione. Niente da ridire sul taglio dell’interpretazione, severo, rigoroso, e, nello stesso tempo, fin troppo denso, preteso e imposto dal giovane Cumer. Una lettura come un’altra, a parte certe bizzarrie, piuttosto inattese in un allievo di Christensen. Ci riferiamo al vezzo di Cumer di arpeggiare in levare, ad esempio, pratica, questa, non documentata fino a Settecento inoltrato, e, a quanto ci risulta, aborrita da Christensen e van Asperen. Inoltre, a nostro parere, una maggior rilassatezza, una morbidezza più cercata, sarebbero state in linea con il carattere patetico delle Cantate, con lo stile italiano loro proprio, e con le inflessioni ora melanconiche, ora concitate della linea del canto. Non solo, avrebbero posto in luce trasparenze, leggerezze e soavità tipiche anch’esse dello stile di Steffani, accanto alla propensione al canto teso e vigoroso, che Cumer in questa registrazione sembra aver nettamente privilegiato. I cantanti sono così stati spesso obbligati a fuochi d’artificio più che in tempo di “allegro”, in quello di “Presto”, o addirittura “Prestissimo”, che poco hanno a che vedere con l’espressività barocca, soprattutto con quella dei tempi di Steffani, e il cui significato si è potuto trasmettere solo perché Casagrande e Liberato sono due fuoriclasse, vocalmente e tecnicamente, e possono attingere a competenze musicali e vocali, che la maggior parte dei cantanti italiani d’oggi, di voce magari più bella, nemmeno si sogna. Dunque, ecco il ricorso ad un impasto ricchissimo d’armonici tra una voce maschile relativamente chiara e una voce femminile piuttosto scura, impasto di notevole suggestione. Ecco il ricorso a colori sempre diversi, a variazioni e abbellimenti di rari eleganza e gusto, a una dizione scolpita, chiarissima, vera spia della preparazione anche letteraria e poetica dei due, che definire semplici cantanti è riduttivo. Ora, l’audacia con cui Liberato affronta tre tessiture diverse – contralto, mezzosoprano, soprano – in tre diverse Cantate, nel ’99 era sembrato a chi scrive un azzardo. E, in realtà, lo è. Ma ciò che non risultava chiaro da quanto fu scritto allora, a questo proposito, va chiarito, e rettificato, ora: il fatto in sé non toglie assolutamente nulla alla qualità delle diverse interpretazioni. Anzi. Liberato rimane pur sempre un puro mezzosoprano, e, in effetti, nella registrazione in oggetto, dà il meglio di sé in Tengo per infallibile, che sembra scritta su misura per lei. Tuttavia, l’aver affrontato tessiture tanto diverse con esito sostanzialmente riuscito, dà la misura, più che della discontinuità, che a suo tempo ci aveva impressionati, della versatilità di questa cantatrice, che, ricordiamo, ha debuttato discograficamente nei difficilissimi Dodici Duetti Buffi (composti nel 1745 circa) di c (ancora accanto a Casagrande), come mezzosoprano acuto. Niente da aggiungere a quanto già scritto sull’interpretazione di Luca Casagrande, che rimane una delle sue più curate, soavi e delicate, vocalmente e musicalmente, e quanto a dizione è addirittura esemplare, una delle sue migliori in disco. Ci piace sempre Cumer, ma ne disapproviamo l’invadenza dello stile cembalistico, perfetto per un solista, fastidioso quando tenta di imporsi sulle voci, soprattutto su quella di Liberato, meno su quella di Casagrande, che ha troppa esperienza e troppa personalità, per lasciarsi travolgere dalle velleità di un novello Händel. Perfetto e senza carattere, ora come all’ascolto del ’99, il violoncello. Si spera che, nella seconda parte del lavoro sulle Cantate di Steffani, il violoncello sia affidato ad altri, non importa se meno dotato del gusto per le simmetrie, che, alla lunga, può risultare noioso.
Menzione (d’onore) a parte per Lagrime dolorose, Cantata per voce di basso, flauti e continuo: un piccolo gioiello, che questa registrazione, nell’interpretazione di Casagrande, illumina di cupi bagliori vellutati e fasci di luce soffusa.
Le Cantate di Steffani, e queste in particolare, sono fatalmente destinate ad un pubblico intelligente e musicale, quindi fatalmente esiguo, proprio perché composte da uno tra gli autori italiani più acutamente sensibili e colti del periodo a cavallo tra Sei e Settecento, che, come quasi tutti i suoi colleghi del tempo, usava la forma “cantata” per sperimentare personali soluzioni musicali. Spesso, inoltre, queste cantate non erano nemmeno destinate ad essere cantate in pubblico, al massimo entro cerchie ristrette di intenditori e musicisti.
Ilaria Prof. Daolio
Letteratura e Storia del Teatro
e Direzione
Istituto Monteceneri
Milano.
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