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- 09 Gen 2019
This is the presentation of a CD that contains four cantatas for Soprano and Basso Continuo. The CD was published for the first time in 2001 by Centaurus Music Int., and a second time completely remixed and remastered, in 2018. It is an essay in Italian, written by Luca Casagrande and Filippo E. Ravizza.
L’Età dell’Arcadia, Parte I
di Luca Casagrande
L’Accademia dell’Arcadia è, in senso stretto, un’accademia letteraria fondata nel 1690, un anno dopo la scomparsa di Cristina di Svezia, a Roma, da un gruppo d’intellettuali, che frequentavano il palazzo della sovrana svedese in esilio volontario nella capitale dello Stato Pontificio.
L’Arcadia, che allude al nome di una mitica, felice regione della Grecia classica, popolata immaginariamente di ninfe e pastori che vivevano in rustica semplicità, diviene presto una sorta di movimento d’intellettuali di tutta Italia, destinato a svolgere un ruolo di primo piano nel panorama culturale italiano tra Seicento e Settecento.
L’epoca cosiddetta arcadico-razionalista, compresa grossomodo tra l’ultimo trentennio del Seicento e il primo del Settecento, è caratterizzata da un’azione innovatrice di carattere anzitutto morale e culturale, ma, insieme, d’impegno estetico e nuova costruzione artistica. Questa spinta è da rilevare principalmente in una visione del mondo anti-barocca o concretamente non più barocca.
Cominceranno ad affermarsi una filosofia morale e razionalistica, la tensione alla pubblica felicità e al paternalismo “illuminato”, esigenze generali di riforma, un’indubbia ripresa della tradizione, ma a sostegno d’attività nuova, la rottura dell’isolamento provinciale tipico del secolo precedente e, finalmente, il senso di una società di “dotti”, uomini “ben nati” e “prudenti”, esercitanti il “buon gusto”, inteso come buon discernimento scientifico e critico, saggezza morale, schiettezza sentimentale, correttezza e proprietà linguistiche, organicità e chiarezza stilistiche, mentalità “razionalnaturale”, che aspira a tradursi in poesia spontanea e controllata, con un legame nuovo di cose e parole, di “sodi” pensieri e di stile comprensibile, comunicabile, efficace.
L’Arcadia, dunque, come momento d’espressione di una crisi interna al barocco nel tardo Seicento. La terminologia di matrice barocca, che continua, nonostante tutto, a caratterizzare l’estetica e la poetica arcadiche, è tuttavia permeata di uno spirito nuovo, di un nuovo accento. Si viene a creare, come afferma Binni, “un impegno complesso di filtro della musicalità e immaginosità barocche in forme più limpide e organiche, adeguate alla nuova mentalità e a quel controllo della ragione, che serve a difendere la fantasia dal lusso dispersivo, dalla ‘lascivia’ barocca e, insieme, ad un suo reinserimento in un contesto morale e civile”.
In questa direzione si muovono Gravina, Vico, i toscani Redi e Menzini, i lombardi Muratori e Maffei. Per quanto riguarda il melodramma, Apostolo Zeno.
Si può aggiungere della polemica anti-ipocrita, di quella contro le usanze semifeudali della società secentesca, della sentita nuova necessità di leggi contro la violenza e l’arbitrio, del recupero, infine, dell’elemento femminile alla vita socievole e culturale, al nuovo bisogno di “civile conversazione”.
Nel corso del Settecento l’Arcadia s’impoverirà e s’inaridirà, quanto a temi e motivi, attestandosi sulla linea romana di Crescimbeni, che sarà la prevalente: manierismo, rigidità, manifestazioni letterarie frivole ed encomiastiche di potenti. Nel medesimo tempo si consoliderà, con le sue esigenze socievoli e conversevoli, la sua modernità vivace e idillica, ottimistica e “saggia”, il suo moderato bisogno d’erotismo e galanteria, le sue più forti esigenze di musicalità e canto, e con quella stessa convenzione pastorale che, tra tanta evasività chiaramente edonistica (dove per edonismo s’intende “patetismo”) nascondeva motivi di naturalezza e di prudente rinnovamento della società umana.
La via su cui l’Arcadia si assesterà definitivamente sarà, insomma, quella più storica e praticabile, che comporterà la rinuncia ai progetti più grandiosi e profondi di riforma, per i quali bisognerà attendere l’Illuminismo e la fine del Settecento.
L’Età dell’Arcadia, Parte II
di Luca Casagrande
La poetica arcadico-razionalista svilupperà e porterà a soluzione su questa via la sua fondamentale vena melodrammatica ad opera di Pietro Metastasio, riconosciuto, dallo stesso muratori, strenuo avversario del melodramma, come il vero poeta del tempo. Metastasio subordina la musica all’espressione della parola, crea immagini poetiche chiare e distinte, controllate dalla ragione, sempre “dense di affetti”, tradotte in un linguaggio nitido, elegante, semplice: la poesia diviene “sogno in presenza della ragione”. Metastasio affascinerà ancora Rousseau e Leopardi e chiuderà, con il concludersi della sua esperienza, la fase arcadico-razionalista.
L’età dell’Arcadia è, dunque, il momento di massima fioritura del melodramma e del canto. Sul finire del XVII secolo, in breve, il melodramma era nelle mani dei cantanti, che ne utilizzavano l’asse portante, l’aria, quale elemento, per mostrare il proprio grado più o meno elevato di virtuosismo, vale a dire la propria capacità di compiere imprese vocali che avessero dell’eccezionale e del “meraviglioso”. Tale rimarrà, in sostanza, la situazione, durante tutto il primo Settecento. Quella che sarà poi denominata come “poetica della meraviglia” riassume l’essenza del teatro musicale di questo periodo.
Alessandro Scarlatti (Palermo, 2.V.1660 – Napoli, 22.X.1725) nel periodo che va, grossomodo, tra il 1680 e il 1725, inserisce il proprio spirito innovatore nel complesso panorama del melodramma e, pur non rinunciando a molte tra le caratteristiche fondamentali del melodramma barocco e a talune pratiche imposte dalla pratica secentesca, punta sull’interpretazione drammatica e sulla necessità di dare ad ogni aria, in altre parole ad ognuno dei momenti più significativi del melodramma, l’effetto appropriato, respiro melodico, sostanza sentimentale, profondità di fraseggio, vitalità ritmica, in modo che l’aria rafforzi la sua funzione di veicolo e mezzo motore del rapporto poesia – musica.
Accolto in Arcadia accanto, tra gli altri, a Corelli e Pasquini, il 26.IV.1706, con il nome di Terpandro, Alessandro Scarlatti sarà l’arbitro del gusto e della forma melodrammatica per almeno due generazioni di musicisti, considerato, pur senza esserlo realmente, il “padre” della grande aria tripartita, per l’inusitata ampiezza, appunto, delle sue arie con “da capo”, e detterà in sostanza le norme per il bel comporre, imponendo in tutt’Europa il modello della cosiddetta “opera napoletana”.
Il mondo del melodramma costituiva la guida e la pietra di paragone per le principali manifestazioni di musica vocale: la Cantata e l’Oratorio. La Cantata , dunque, come una sorta di opera in miniatura, di chiara destinazione mondana e terreno prediletto da tutti o quasi i compositori italiani di fine Seicento – inizio Settecento.
Il modello di Cantata che finisce per prevalere è quello a voce sola e basso continuo, a volte arricchito da strumenti concertanti o d’accompagnamento. L’enorme diffusione del genere, paragonabile a quella del madrigale in epoca tardo-rinascimentale o del lied in età romantica, dà a molti compositori l’occasione di rivelare qui più che altrove la loro abilità e la loro eventuale grandezza.
Sviluppata, ribadiamo, sul corpo della Cantata barocca, la Cantata in Scarlatti si amplia, ospitando monologhi, dialoghi, arie e recitativi destinati a dare sempre compiutezza al discorso. Come nella Cantata d’epoca precedente, i testi sono amorosi, trattano con accenti tragici connubi mitologici, storici e pastorali. I personaggi, fondamentali nella Cantata esattamente come nel melodramma, sono stereotipi, ma vivi nella coscienza di tutti: Lucrezia, Didone, Clori, Fileno, Nice, Filli, Orfeo, Euridice, Mitilde, Climene, ecc..
In Scarlatti, che compose circa settecento Cantate, le pur ampie dimensioni di queste composizioni sono contenute, nella maggioranza dei casi, in tre o quattro brani : aria con “da capo” – recitativo -seconda aria con “da capo”, o questo stesso schema preceduto da un recitativo iniziale. Naturalmente si danno numerose, interessanti eccezioni, riguardanti essenzialmente le Cantate composte da Scarlatti nel primo periodo della sua attività compositiva, perciò aumenta il numero dei brani (fino a un massimo di dodici), un’aria può non presentare il “da capo”, un recitativo si trasforma in un “arioso”, la Cantata si chiude con un recitativo, e via dicendo. Le Cantate di Alessandro Scarlatti rivelano in modo più evidente rispetto ai suoi stessi melodrammi il processo d’evoluzione dello stile del compositore: semplificando, si può ragionevolmente affermare, che le Cantate precedenti al 1697, all’incirca, rivelano una varietà di struttura e una libertà,. Che le Cantate dei tempi successivi non hanno, e così i testi, che, con il tempo, saranno sempre maggiormente improntati allo stile “prezioso” e ornato, tipico delle accademie.
Luca Casagrande
Le Cantate
di Filippo Emanuele Ravizza
Il Nerone
Il Nerone, cantata di ambientazione storico-psicologica, composta da cinque recitativi alternati a quattro arie, sarebbe stata composta, secondo gli studiosi, a Napoli nel 1698.
In questo lavoro permangono rari tratti stilistici della prima maniera dell’autore, quella antecedente il 1697, grossomodo. Infatti è notevole il ridimensionamento del ricorso a dissonanze e all’arditezza delle modulazioni tonali, ciò da cui si intuisce l’influsso, inevitabile, da parte del coevo stile teatrale. In altre parole, tutto diviene più ‘semplice’, aumenta la coerenza con i principi del sistema tonale, si fa maggior riferimento agli ideali di una ‘riforma’ in senso ‘classico’ (o ‘razionale’) delle composizioni, vocali e no. L’armonia è influenzata dal tonalismo e scaturisce da necessità di tipo percettivo, piuttosto che da esigenze di tecnica contrappuntistica.
In questo periodo, Alessandro Scarlatti utilizza preferibilmente la forma standardizzata di aria con ‘da capo’, evitando lo sperimentalismo formale del primo periodo. Conseguentemente, la Cantata in oggetto comprende arie tutte in forma ternaria e chiusa.
Nel primo recitativo “Io son Neron” non si riscontra nulla di rilevante, a parte il significativo accordo di settima diminuita alle parole “cadaveri esangui” (l’accordo, di per se ‘triste’ ed evanescente, ben si presta a un simile uso descrittivo). Si possono notare alcune imitazioni tra canto e basso, dal carattere più ritmico, che rigorosamente contrappuntistico, a “Solo la crudeltà siede al governo” frase la cui perentorietà è accentuata dalla tonalità di fa maggiore.
La prima aria si basa su figurazioni ritmiche ‘puntate’ che sottolineano, soprattutto, il termine “tremi”, enfatizzato anche da un vibrante passaggio di gorgia. (cfr. anche la parola “balenar”). Assistiamo a una distensione pulsiva apprezzabile alla parola “Aurora” dove i ritmi puntati scompaiono temporaneamente.
Una roboante gorgia, a terzine discendenti (nella prima sezione) poi ascendenti terminanti con siD acuto (nella seconda sezione), evidenzia il “balenar” declamato dal protagonista.
Il secondo recitativo “Il tirannico cor” è piuttosto convenzionale. Inoltre, non sembrerebbe dipingere intensamente gli eventi narrati, scorrendo quasi indifferente su “si uccida la consorte, ed alla genitrice che la vita mi dié, si dia la morte”. Forse si tratta di una scelta conforme al principio di una “Musica” intesa come “serva dell’oratione”, con conseguente concepimento di un accompagnamento che si limiti a essere sottofondo del testo senza contribuire, più di tanto, all’espressione degli affetti e alla descrizione degli eventi: anche questa potrebbe essere una scelta strategicamente utile a mettere in luce il testo.
Una serie di quartine di semicrome caratterizza la seconda aria, “Non stabilisce no” , composizione basata sostanzialmente sull’idea ritmico-melodica iniziale del basso continuo, idea sfruttata più volte alla quale il canto si adegua procedendo spesso per terze parallele.
Nel terzo recitativo, “Or coll’abisso”, a parte l’accordo di settima diminuita presente a “Campidoglio” e ad “Anfiteatri”, tutto appare procedere ‘normalmente’. All’affermazione “gli atterri”, una diminuzione di sedicesimi al canto spezza il declamato piano. Il momento più intenso, descritto come “il popol che abbrugia, i furori, le strida, i gemiti, le grida, il mormorio dell’ira”, è sottolineato da una progressione a quartine di semicrome nel basso, realizzazione che vivacizza in maniera ‘sotterranea’ il canto, quest’ultimo chiaramente sillabato in modo da evidenziare gli orrori citati e da aumentare il senso di drammaticità. Alla parola “mormorio” il Soprano ha ulteriore occasione di sfoggiare la propria agilità in una serie di rapidi sedicesimi, partecipando fattivamente all’evidente intento retorico descrittivo.
“Accompagnar vogl’io con la mia lira”: nel concludere questo recitativo, l’accompagnamento strumentale si fa disteso, anticipando il carattere morbido dell’aria che segue e riprendendo qualche elemento strutturale (ritmico-melodico) di quella precedente.
La quarta aria, “Veder chi pena”, non risulta in effetti, ‘aggressiva’ come le altre, visto che il testo parla di “Spiriti dell’Ira”, che finalmente si sono placati. Si tratta di un adagio calmo, a ritmo ternario, quasi concepito a voler ricreare una dimensione da sogno. Ed ecco che, puntualmente, alla parola “sognar” troviamo una lunga gorgia a terzine discendenti per grado congiunto.
Per quanto riguarda il quarto recitativo, “Coi furibondi sguardi”, d’ambientazione musicale convenzionale, simile a quella del secondo, spiccano sia le due terzine rapide ascendenti, di sedicesimi, apposte a “fiamme”, sia la rapida tirata discendente apposta a “folgori”.
Andate, o miei sospiri
Le due versioni di Andate, o miei sospiri, sulla base delle risultanze storico-documentarie furono scritte a Napoli nel 1712.
Interessante notare come Alessandro Scarlatti sia sostanzialmente ricorso a due differenti stili compositivi per ottenere una versione musicale ‘umana’ e una ‘inumana’ del medesimo testo.
Nella cantata ‘umana’, non registrata in questo Cd, composta da un arioso seguito da due arie inframmezzate da recitativo, tutte le arie risultano nella consueta forma chiusa tripartita con ‘da capo’. Nonostante l’intento di creare una composizione non particolarmente difficile da eseguirsi, i recitativi sono costellati dagli ormai noti salti di difficile intonazione, da dissonanze ‘penetranti’ e da arditezze armoniche (in merito a quest’ultime si rimanda alle cantate giovanili, per voce e strumenti, di Johann Adolph Hasse).
Non si possono, qui, menzionare arditezze di sorta, a parte il fatto che il testo, essendo assai di maniera e non contenendo affetti particolarmente intensi, probabilmente indusse l’autore a concepire una composizione elegante tuttavia sostanzialmente priva di colpi di scena musicali.
La seconda versione di Andate, o miei sospiri, qui incisa, composta da due recitativi con relative arie, appare introdotta dalla seguente proposizione: «La stessa cantata fatta con idea inumana / ma in regolato cromatico / non è per ogni professore.»
Effettivamente, il primo recitativo è costellato da cromatismi, modulazioni insolite, dissonanze e intervalli audaci. Ad esempio si citano: a “miei sospiri”, al basso, un cromatismo discendente; a “ben lo saprà” la modulazione arditissima da laD maggiore a la minore; a “dolore” un intervallo armonico di settima diminuita tra basso e canto (fa#-miD); a “s’aggiri, andate al cor d’Irene” le modulazioni a toni lontani a partire da re# minore, tonalità insolita per l’epoca (re# minore – do# minore – fa# minore – si minore).
La prima aria, “Se vedrete”, qui affidata ai soli voce e violoncello, appare in un severo stile fugato, introdotta da tema altrettanto ‘serio’, probabile espediente per rendere efficacemente ‘inumana’ detta composizione (si aggiunga la pulsazione sostanzialmente uniforme, quasi meccanica). Bisogna riconoscere, che le frequenti sincopazioni (conseguenti ai ritardi), unitamente a dissonanze e alle considerevoli proporzioni del brano, rendono il brano in questione estremamente e palesemente difficoltoso (sicuramente era pezzo di bravura per i cantanti dell’epoca).
Il secondo recitativo, “Ma di che mi lusingo”, è assai inumano! Si osservi all’inizio il cromatismo nella parte grave, analogamente alle successive modulazioni continue e improvvise. A “ma fingerà” il basso continuo ‘serpeggia’ procedendo, con alterazioni, per gradi congiunti; a “ma s’infinge quel suo barbaro” si può essere sopraffatti dalla modulazione stranissima re minore – laD maggiore.
Nonostante il precedente scenario di ‘inumanità’, l’ultima aria “Se non v’accoglie” può certamente commuovere per la sua dolcezza e ‘umanità’ (si confronti con l’aria conclusiva della cantata Armida abbandonata di Georg Friedrich Händel, in modo da verificare un ricorso agli stessi topoi melodici e alla medesima impostazione ritmica). Probabilmente il Cavalier Scarlatti ebbe qualche ripensamento riguardo alla sua ricerca di ‘inumanità’ musicale e preferì concludere con la morbidezza di una pulsazione ternaria unita ad una conduzione melodica affettuosa, sensibile e suadente.
Poi che riseppe Orfeo
Poi che riseppe Orfeo, dall’ambientazione tragico-sentimentale, consta sostanzialmente di tre recitativi e di tre arie, l’ultima delle quali propriamente definibile come arioso. Ad un’analisi dello stile, questa Cantata potrebbe risalire al primo periodo compositivo dell’autore, quindi potrebbe essere stata scritta prima del 1697. Numerose idee melodiche sono di gusto squisitamente tardo-rinascimentale, com’è ravvisabile nella seconda parte del primo recitativo, in stile arioso, dove, alle parole “spiegò tai carmi al suon della sua Cetra”, viene in mente la produzione cacciniana e monteverdiana.
Nella prima aria “Crude stelle”, in forma chiusa tripartita con ‘da capo’, l’intervallo iniziale di quinta discendente (salto dominante – tonica) anticipa con enfasi la drammaticità del contenuto letterario in oggetto.
Alessandro Scarlatti utilizza ampiamente elementi di tecnica contrappuntistica, com è chiaramente visibile alle parole “o pietose mi rendete”, rilevate da una fine imitazione tra canto e basso. Grazie a questa concezione, ancora fortemente legata alla tradizione tecnico-musicale precedente, il basso continuo rivela una discreta autonomia, oltre che una pregevole ed elegante fattura (brevi passi di solo basso continuo servono a demarcare chiaramente la struttura formale del pezzo);
Non mancano espedienti tecnico-retorici vari e raffinati, spesso basati sul ricorso a determinate dissonanze, modulazioni ardite e salti melodici audaci, quest’ultimi presenti talvolta al basso talvolta al canto. Si cita come esempio indicativo, nella gorgia su “m’uccide”, il cromatismo discendente mi#-miE, mentre la parte grave presenta il salto di quarta diminuita ascendente la#-reE. Da segnalare, inoltre, il cromatismo do#-doE (“se con questi mesti lumi”), il salto melodico si-mi# (quarta eccedente, “diabolus in musica”) a “crude stelle” e a “o pietose”.
Da notare alcune idee melodiche tipicamente partenopee, soprattutto nelle code di fine frase (cfr. “la mia cara”; “di mirarla Orfeo”, ove appare il caratteristico intervallo discendente di seconda diminuita siD-sol#), analogamente all’uso del famosissimo accordo di sesta napoletana, soprattutto sul secondo grado che va al primo (II-I) nel basso.
In merito al secondo recitativo, “Ah, che son sordi i Dei”, può essere interessante notare come il compositore prediliga l’accordo di settima di dominante su pedale di tonica (cfr. “sordi”), cui seguono i seguenti ‘preziosismi’: il sorprendente cambio di modo ad “ascoltano”, probabile interpretazione del dolore dovuto al disinteresse degli Dei, cui è annessa ardita modulazione (cfr. “né ascoltano le stelle”) effettuata tramite alcune cadenze evitate (accordo di settima di dominante di fa maggiore che risolve sull’accordo di settima di sensibile di re minore) con, al basso, l’intenso cromatismo ascendente doE-do# ; la lunga gorgia che fa risaltare la parola “pianti”, dove si ha una doppia dissonanza col basso ottenuta tramite doppio ritardo, insieme alla piacevole concatenazione dell’accordo di sesta napoletana che risolve sull’accordo di dominante di sol minore.
La seconda aria, “Pianga il rio”, fondata su un basso di tipo ‘ostinato’, appare in forma tripartita aperta (A-B-C) ossia priva di vero ‘da capo’, concepita in modo che a ogni sezione corrisponda una tonalità differente. In questo modo abbiamo, globalmente, la successione tonale mi minore – si minore – fa# minore pensata, probabilmente, per variare l’uniformità generale del brano, oltre che per dare un velato senso di tensione (si passa infatti dal tono principale al tono della dominante, quindi al tono della dominante).
Anche qui non mancano ‘durezze’, come il salto di quinta diminuita discendente alla parola “selve” (mi-la), o il medesimo (trasposto) alle parole “duri sassi” (si-mi#).
I passi di gorgia (cfr. “il mio lamento”) richiamano tanto lo stile vocale quanto quello violinistico della prima metà del Seicento, come tipico nella produzione di Alessandro Scarlatti e dei compositori coevi. Ancora più ‘strumentale’ ogni gorgia alla parola “vento” che è evidenziata, ripetuta, nell’arioso introdotto dal terzo recitativo. Quest’ultimo ripresenta un accordo di settima di dominante su pedale di tonica (a “la mia cara” e anche a “di questa cetra”), una delle maniere più caratteristiche d’introdurre l’accompagnamento delle parti ‘declamate’ in ambito di ‘scuola scarlattiana’. Da notare, che al modo di la minore dell’incipit (“è morta la mia cara Euridice”) è contrapposto il modo di sol maggiore per le parole “andrò nel basso Averno”, quasi il compositore avesse voluto sottolineare la solarità di un tal atto di ‘eroismo’ rispetto alla mestizia dell’evento luttuoso.
Nell’arioso conclusivo (forma aperta libera), il cui testo è una descrizione arcadica della natura, l’assenza di un contenuto affettivamente pregnante giustificherebbe l’assenza di dissonanze e altri simili artifici retorico-musicali. Questa assenza risulterebbe tuttavia compensata da virtuosismi canori di grande effetto: le già citate lunghe diminuzioni di carattere brillante, sempre sulla parola “vento”, con intento indubbiamente descrittivo.
Didone abbandonata (Alle Troiane Antenne)
Didone abbandonata, composta da tre recitativi e relative arie, sulla base delle risultanze storico-documentarie fu scritta e rappresentata a Roma, il 18.09.1705.
Si assiste, in questa Cantata, a un recupero della maniera compositiva sperimentata con la Cantata Poi che riseppe Orfeo: dissonanze, salti audaci, modulazioni ardite e improvvise oltre che tonalmente disarticolanti. Si potrebbe parlare di uno stile propriamente ‘romano’, contraddistinto da molti motivi tipici melodici, analogo a quello riscontrabile in parecchie cantate giovanili di Georg Friedrich Händel.
Tutte le arie risultano formalmente tripartite e organizzate simmetricamente con ‘da capo’, inoltre sembrerebbe consolidata l’abitudine, a inizio di aria, di presentare due volte l’incipit letterario-vocale inframmezzato da breve passo di solo basso continuo.
Nel primo recitativo non si nota nulla di particolare, visto il carattere meramente introduttivo alla vicenda.
Nella prima aria “Io t’accolsi” la melodia dell’incipit rimanda alla celeberrima cantata händeliana Lucrezia; possiamo trovare un altro topos melodico di scuola romana alle parole “amante, e ti diedi col regno il mio core”.
Si segnalano le seguenti particolarità: a “core” è apposto un bellissimo vocalizzo in cui compare un vistoso salto di quarta diminuita discendente (do-sol#); a “dolore, sì acerbo dolore” la modulazione a si minore è introdotta da salto melodico di quarta eccedente ascendente (mi-la#); le parole “ridi e deridi di quest’alma l’acerbo dolore” sono evidenziate da un continuo modulare e passare da modo maggiore a modo minore cui consegue una sensazione di ‘quasi svenimento’.
Da notare che la parte di basso risulta, all’inizio, per lo più scritta in chiave di tenore, dando un colore più ‘piangente’ allo strumento ad arco oltre che maggior tensione, come rilevabile in altre arie dello stesso autore e dallo stesso contenuto.
Il secondo recitativo contiene un breve passo in stile di arioso (Adagio) iniziante alle parole “che sia pena del mio fallir”, dove un miD al canto è dissonante rispetto al re al basso, inoltre una modulazione improvvisa da sol minore a mi minore è effettuata tramite cadenza evitata (dalla dominante di sol a quella di mi) creando un senso di ‘instabilità’ quasi a sottolineare il ‘fallimento’ di Didone.
Alle parole “accende il rogo alla tradita Dido” troviamo una concatenazione armonica molto ardita ed efficace, tipica della scuola scarlattiana (si vedano anche le cantate giovanili di Johann Adolph Hasse) basata su cromatismo al basso do-si-siD e su modulazione armonica audacissima do maggiore – la minore – miD maggiore – fa minore.
Una certa dolcezza caratterizza la seconda aria, “Ah crudel”, quasi a giustificare le parole “e pur t’amo”. Fini imitazioni contrappuntistiche tra basso e canto (“crudel tu m’abbandoni”) vanno segnalate insieme a altri ‘artifici’, quali: la modulazione ardita fa maggiore – la minore con salto melodico ascendente la-re# (quarta eccedente) la seconda volta che si canta “Ah crudel”; il salto discendente di quarta diminuita (fa-do#) per evidenziare “ingannator” analogamente a “traditor” (do-sol#). Il tema principale della sezione centrale può essere considerato ulteriore topos melodico di scuola romana (“del mio cor disprezzi i doni”), ripreso più volte in tutta la tradizione europea successiva.
Nel terzo recitativo, “L’ancora di mia fé”, l’esortativo “fermi il tuo legno” è sottolineato da un improvviso cambio di modo da sol minore a sol maggiore, forse nell’intento di dare ‘luminosità’ musicale al debole sentimento di speranza della protagonista. Troviamo alcune modulazioni ardite (e conseguenti durezze melodiche) riguardanti le tonalità di do minore, re maggiore e fa# maggiore, alle parole “Imeneo rimira offeso dell’empio inganno tuo” mentre a “misera” compare un accordo di sesta napoletana. Altre modulazioni ardite (re maggiore – mi minore – do minore – do maggiore) sono da segnalarsi alle parole “ogni catena, che l’istesso delitto è la tua pena”.
Si trova nuovamente il basso continuo scritto in tessitura acuta all’inizio della terza aria, composizione non priva, al pari delle altre, di squisiti artifici retorico-musicali. Di questi si osservano: a “inferno” un ritardo al basso che crea una dissonanza molto forte col canto (qui le parti distano solamente una seconda minore!); a “penar” il gioco imitativo delle parti che si basa su un intervallo dissonante di quarta diminuita discendente (reD-la) prima eseguita dal basso poi dal canto; sempre a “penar” troviamo la quinta diminuita la-miD , al canto, nella lunga gorgia che conclude con cromatismo discendente basato su ritardi (sincopazioni) sostenuti da breve progressione armonica discendente (senso di lento svenire/morire/cedimento); a “ma più fiero tormento” la modulazione ardita da do minore a re minore, con cromatismi paralleli tra basso e canto; a “ch’amo ancora” le imitazioni contrappuntistiche, tra le parti, dal significato ‘sensuale’ (re-do#-re); a “ch’amo ancora chi mi seppe ingannar” la linea melodica del basso sinuosissima (mi-fa#-faE-miD-miE) quasi a simboleggiare il ‘serpeggiare’ dell’inganno; alla ripetizione di “ch’amo ancora” abbiamo analoghe imitazioni contrappuntistiche ‘sensuali’ ma in tonalità diversa (do-si-do); a “mi seppe ingannar” la gorgia, con progressione discendente basata su ritardo fiorito, in cui spicca intervallo discendente ‘duro’ di terza diminuita (laD-fa#).
Filippo Emanuele Ravizza
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