Please Wait...

ALESSANDRO SCARLATTI (𝟣660 – 𝟣725) – “LIETI BOSCHI” – CANTATE – BY LUCA CASAGRANDE

by Luca

Alessandro Scarlatti (Palermo, 6.V.1660 – Napoli, 22.X.1725) è compositore di quasi prodigiosa fecondità. La sua produzione, pervenutaci nella quasi totalità in forma manoscritta, è diffusa nelle biblioteche di tutta Europa e non solo.

L’attività teatrale del palermitano conta, secondo sue personali dichiarazioni, centoquindici melodrammi, di settanta dei quali abbiamo notizia sicura, mentre trentacinque sono arrivati fino a noi; si contano, poi, circa settecento tra cantate, serenate, arie e madrigali, venti oratori, dieci messe, una sessantina di mottetti, dodici sinfonie per orchestra da camera, toccate, preludi e fughe per cembalo, sonate a quattro, suites per flauti e cembalo, e via discorrendo. Senza contare tutta la produzione giacente in archivi e biblioteche ancora oggi chiusi a ricercatori e pubblico.

“Di fronte alla stanchezza dell’età barocca sta delineandosi, sulla fine del Seicento, la reazione dell’Arcadia: l’azione del gusto letterario è troppo forte, perché la musica nei suoi intimi legami con la poesia non debba risentirne gli atteggiamenti nelle azioni drammatiche e nelle effusioni della lirica da camera. In quest’ultima soprattutto sono da ravvisare le profonde radici dello stile vocale di Alessandro Scarlatti: ma l’altissimo suo magistero non si potrebbe capire se non fosse riportato a quella vocalità ch’era giunta verso la metà del Seicento, e specialmente nell’ambiente romano, ad una coerenza di stile conseguita proprio nel più delicato fondersi della parola col suono” (L. Ronga). Scarlatti stesso, nel suo Discorso di musica sopra un caso particolare, del 1717, insiste sulla necessaria rispondenza tra canto e parola come sul procedimento più idoneo a “muovere la passione dell’anima”.

La produzione di cantate, nel Seicento, è immensa e si concentra intorno ai temi suggeriti dal gusto del tempo: in primo luogo, la rappresentazione astratta di un mitico mondo bucolico, e degli idilli, dei sentimenti, dell’erotismo dei personaggi pastorali che lo popolano, in costante relazione con una natura ed un paesaggio di boschi e selve, di fiori, ruscelli, piante, tortore, usignoli, gare di vele, marine, a volte accoglienti e consolatori, altre volte fonti di malinconiche rimembranze o di paragoni (“l’aria di paragone” è l’elemento principale dell’espressione di questo mondo), altre volte ancora ostili e nemici, freddi e crudeli. L’imitazione della natura da parte della melodia vocale si accentua proprio con Scarlatti, che nelle sue cantate da molta importanza agli spunti derivanti da elementi georgici, e al carattere amoroso: la schermaglia amorosa, il corteggiamento, l’elogio iperbolico della bellezza della donna amata. Scarlatti, fin dagli esordi, rivela una decisa padronanza di questo mondo e della sua poetica. Il compositore “afferma la sua sensibilità nella nitidezza e nella chiarezza plastica delle melodie, mostrando non di rado di aver innato il senso dell’euritmia e della concisione” (L. Ronga). Scarlatti è dunque sobrio, nella sua arte, procede verso una sorta di semplificazione in senso evolutivo dell’estetica barocca, e a questo scopo concorrono, oltre ad una concezione strumentale del canto, l’indubbia profondità armonica delle sue composizioni, e, loro malgrado, le molte voci a lui contemporanee, che ritengono la sua arte fin troppo austera e colta, per chi dalla musica si attende piacere frivolo. Il palermitano si rivela, insomma, in posizione sostanzialmente non più barocca. Meglio, la sua arte è espressione di una fase di passaggio interna al Barocco, caratterizzata, insieme all’estetica arcadica, dal razionalismo, vale a dire dall’imporsi di una decisa stilizzazione poetica e musicale, e  di un fermo e coerente sottrarsi agli abusi che funestano l’arte musicale e vocale intorno all’ultimo ventennio del Seicento. “Le sue cantate obbediscono spontaneamente alle inflessioni più naturali dei registri vocali e, senza tema di esagerare, si può dire che ciascuna di queste arie scarlattiane contiene la somma delle esperienze più delicate e squisite che si possano accogliere in fatto di stile vocale. Nella cantata scarlattiana infatti la voce è costantemente scoperta, anche perché la parte strumentale d’accompagnamento non vuol essere di più di una semplice atmosfera tonale e armonica entro la quale risalti nettissima l’intonazione dei singoli suoni, la melodia è agile e snodata” (L. Ronga). Come scriverà il Tosi nelle sue Opinioni de’ cantori antichi e moderni, del 1723, “Questa, a un di presso, era la scuola di que’ professori che per ischerzo gl’inetti chiamano antichi. Osservatene esattamente le leggi, disaminatene con rigore i precetti, e se la prevenzione non v’ingombra l’intelletto vedrete ch’ella insegnava d’intonare, di metter la voce, di far sentire le parole, d’esprimere, di recitare; di eseguir sul tempo, di variar sul moto, di comporre, e di studiare il patetico ove solo trionfa il gusto e l’intelligenza”.

L’obiettivo principale di Scarlatti, nel cammino verso quella che sarà la fase più fulgida del belcantismo, è dunque l’espressività, da raggiungere, appunto, anche tramite l’esercizio congiunto, o meglio indissolubile, del patetismo, inteso come soavità e tenerezza espresse dal canto, capacità, quindi, del cantante di emettere suoni duttili e malleabili, e del virtuosismo, posto che questo non sia ovviamente inteso come mero sfoggio d’abilità tecnica, ma come espressione calzante, suggestionante, emotiva: sforzo tecnico e sforzo di fantasia, che determinano un risultato eccezionale. “Il vero virtuosismo è sempre espressivo, investa i melismi o il canto spianato” (R. Celletti). Scarlatti non rinuncia certo ai melismi, anche su preposizioni ed avverbi o parole non particolarmente rilevanti, e spesso ripete singoli vocaboli, allo scopo di allungare la frase musicale, ottenendo il risultato di ampliare le dimensioni delle arie nelle cantate, rispetto a quanto si riscontra nei suoi predecessori. Queste caratteristiche della scrittura scarlattiana si ravvisano in tutte e sei le cantate qui registrate, per contralto e basso continuo, in cui compare un insistito susseguirsi di vocalizzi su scalette ascendenti (Lieti boschi, ombre amiche), quasi più spesso che discendenti. Inoltre, il palermitano spinge spesso le voci verso i limiti acuti dei rispettivi registri, testimoniando così, l’alto livello tecnico raggiunto dai cantanti dell’epoca, nel caso presente dai contraltisti e dai contralti donna. Questo fatto, si nota in almeno quattro delle sei cantate qui presentate ed è particolarmente evidente in Questa è la selva, in cui la melodia vocale, in alto, insiste sul re4 e tocca molto spesso il mi4, e la tessitura della quale scorre per lunghe frasi sopra il rigo, mentre in basso si scende raramente e si oltrepassa il do3 solo in quattro momenti. Quant’io v’ami e Bella, per te d’amore sono piuttosto contenute quanto ad estensione verso l’acuto (do4), mentre in basso toccano abbastanza spesso il la3, e sono di tessitura medio-bassa. Lieti boschi, ombre amiche, Son io barbara donna, E fia pur vero, ò Dio presentano estensioni comprese tra il la3, peraltro appena sfiorato in un paio di punti in E fia pur vero, ò Dio, e il re4, (in Son io barbara donna toccato due volte di sfuggita), quindi un’estensione più o meno tradizionale, per il registro di contralto. La particolarità di queste cantate è la tessitura, spinta ai limiti acuti del contralto sei-settecentesco, del si3-do4, dando quindi forma ad un canto piuttosto teso e relativamente vigoroso, anche nei melismi. Si ravvisano insomma in Scarlatti i primi elementi di quella“agilità di forza” o “di sbalzo”, da eseguirsi a voce piena, che esploderà nella prima metà del Settecento grazie alle prodezze vocali di contraltisti e mezzosopranisti come il Bernacchi, Grimaldi, il Senesino, il Carestini, nelle composizioni di G. F. Händel, G. Bononcini e N. Porpora, e che troverà il suo definitivo codificatore in Gioacchino Rossini.

I manoscritti delle cantate per contralto e basso continuo qui registrate, sono conservati presso la Biblioteca del Conservatorio di S. Pietro a Majella, a Napoli.

“Alessandro Scarlatti è realmente il fondatore di quel linguaggio musicale del quale si sono serviti i compositori classici per esprimere i loro pensieri fino alla fine del periodo viennese. Sviluppo tematico, equilibrio della frase melodica, armonia cromatica: tutti gli artefici che il secolo decimosettimo aveva introdotti come tentativi, sono da lui adoperati in un tessuto unito e morbido, che raggiunge la perfezione in colui che, se bene non avesse mai conosciuto il suo vero maestro, fu tuttavia il suo miglior discepolo: Mozart” (E. J. Dent).

LUCA CASAGRANDE


Centaurus Music Int. Studio Recording “Alessandro Scarlatti – Lieti Boschi – Cantate- WORLD PREMIERE RECORDING.” – ℗ 2011.
Alto Loretta Silvestri Liberato
Harpsichord M.° Giorgio Revelli
Artistic Directors: Loretta Silvestri Liberato & Giorgio Revelli
Artistic Supervision: Luca Casagrande
Producer: Luca Casagrande.


 

Quant’io v’ami

Quant’io v’ami, o luci belle,

se saper poteste un dì.

Al mio amore crude e ribelle

non sareste ogn’or così.

Questo conforto solo

per mercè concedete a chi v’adora,

d’uno sguardo pietoso e poi si mora.

Bel morir se il caro bene

mostrerà delle mie pene

nel bel sen qualche pietà.

Bel morir, se il caro bene

mostrerà delle mie pene

qualche senso di pietà.

Di mia morte al fier momento,

non di duol, non di tormento

ma di gioia a me sarà.

 

E fia pur vero, ò Dio

E fia pur vero, ò Dio, che ascoltar degg’io

dal tuo labbro amato ch’io sia teco crudel,

tiranno e ingrato.

Al costante amor mio

è questa la mercè che da te aspetto,

dal suo tenero affetto questo premio riceve

il core amante.

Tu sai pur che costante t’amo, t’amai

e t’amerò in eterno.

L’amor che nell’interno di questo cor racchiudo,

vien sul mio volto e a note di pallore

ti spiega il mio dolore.

Infin da questi lumi tu più volte vedesti

scorrer di pianto i fiumi

e in ricompensa poi di tanto affanno,

dici che ingrato son, crudo e tiranno.

Io son tiranno, è ver,

ma solo dal mio cor

che per amarti ogn’or

distempro in pianto.

Son crudo al mio pensier

che posa mai non ha,

pensando a tua beltà

ch’adoro tanto.

Ah, che ben io t’intendo, Amaranda crudele,

perché troppo conosci quanto t’amo e t’adoro,

e aver non vuoi pietà d’un cor piagato,

dici che crudo son, tiranno e ingrato.

Deh, vanne tra le selve,

‘che dagli augelli e dalle crude belve

apprender ben potrai, semplice e belle,

da natura dettate, le leggi dell’amare.

Così del mio penare aver potrai pietate,

con l’esempio di quelle che ingrate

mai non son ne’ loro amori,

ma gradiscon pietose i dolci ardori.

Se mai la tortorella d’amor fia che si lagna,

la cara sua compagna veloce a lei sen va.

E a consolar di quella l’affanno e il rio martoro,

li da qualche ristoro o  mostra almen pietà.

 

Questa è la selva

Questa è la selva e quello è il dolce amico rio,

dove teco dal mio mi sottrasti dal sole ai raggi ardenti.

In questi puri argenti specchiasti il volto

e dissetar ti piacque il tuo labbro in quest’acque.

Quello è il florido prato, da cui rapisti i più vermigli fiori,

con quella man che tanto accende i cuori.

Quest’è il colle, ove irato più non volgesti il ciglio

e  le pupille girasti a me tranquille.

Quella è la valle ombrosa, dove meco amorosa

ti piacque lusingar l’affanno mio ed or mi lasci, oh Dio.

Oh Dio, tu parti e m’abbandoni

né pur mi doni la morte almen.

Ahi, di placarti se non ho sorte,

di gel di morte spargi il mio sen.

Forse che profanai il dio, la selva al prato

a te già reso ingrato, altro volto cercando

et altri amori,

forse di nuovi ardori  esca mi resi

ad altra ninfa in traccia?

Forse mi vidde di sudor già molle,

questa valle e quel colle?

Ah, tal pensier discaccia, son tuo,

né fia giammai ch’a te manche di fede,

Amor ch’a te mi diede, non fia ch’a me mi tolga,

né avverrà che si sciolga la catena fatal

che sì m’allaccia.

Ah si, Nice, ti piaccia,

mentre per poco almen fermi le piante,

credimi a te fedel, credimi amante.

Credi che t’amo, ch’ognor ti chiamo,

mio ben, mia vita e che gradita sei troppo al cor.

Né sarà vero che dal pensiero partir potrai,

né d’altra mai  può farmi amar.

 

Bella, per te d’amore

Bella, per te d’amore tanto avvampa il mio core,

arde tanto il desìo, che già non son più mio.

Solo il pensier tu sei di tutti i pensier miei,

sempre per te  sospiro, sempre di te ragiono.

Ah, che più mio non sono.

Nel mio sen più non è l’alma mia,

nel mio petto il mio cor più non è.

Chi saperne l’albergo desìa,

mio bel sole lo cerchi da te.

Dolcemente rapito da tua beltà

che in servitù mi prese,

con forze non intese tanto di me perdei,

ch’io non vivo più in me, ma vivo in lei.

Costante e notte e dì, dicendo io vo’ così,

ah, che più mio non son, non son più mio.

Ascolta i sospir miei e ogn’or ripiglia amor,

no che più tuo non sei, lo so ben io.

 

Lieti boschi, ombre amiche

Lieti boschi, ombre amiche, a voi ritorno.

Non già perché tra voi speri l’afflitto core,

trovar qualche conforto ai dolor suoi.

Non basta al mio dolore

la bell’ombra dei lauri e degli abeti,

e a farmi i pensier lieti

non han virtute il faggio, il mirto e l’olmo.

Lieti boschi, ombre amiche, a voi ritorno.

Io tra voi ricerco solo

di languir con libertà.

Che mirate, ma tacete,

le mie lagrime segrete

né dimando al mio gran duolo,

care selve, altra pietà.

Sappia l’affanno mio,

sappia l’aspro tenor de’ miei sospiri,

l’antro, il bosco, la selva,

ogn’augello, ogni belva,

il vento, il rio, ma non lo sappia Clori.

Sappian l’aure e i venticelli

ch’io non fo’ che sospirar.

Ma non oda i miei sospiri

e non veda i miei deliri,

la cagion del mio penar.

 

Son’io barbara donna

Son’io barbara donna, infida Clori,

quello son’io che un tempo fui

de’ dolci pensier tuoi l’oggetto amato.

Quello io son, che fortunato

ti seguiva sovente

al bosco, al prato, al rio,

oh memoria dolente a cui dicevi

siedi fra queste fronde,

siedi su quest’erbette,

specchiati in questo rio,

‘che il ritratto vedrai dell’idol mio.

In questo ruscelletto

che corre limpidetto

vedrai nel tuo bel viso

dipinto il mio piacer.

Da me sempre indiviso,

sospira a’ sospir miei

e godi al mio goder.

Quello son’io, tu quella più non sei,

senza amor, senza legge e senza fede

non curi i torti miei

e divenuto amante

d’ un novello sembiante,

sprezzi l’antico ardore

e il mio sincero amore.

Pensa che un nuovo amante

non ti sarà costante

come son’io fedel.

Deh, torna al primo amore,

consola questo core,

idolo mio crudel.

 

Comments

comments