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“Alarico Il Baltha, cioè l’Audace, Rè de Gothi”. Registrata in Italia la PRIMA ASSOLUTA del capolavoro di Agostino Steffani

Di I. Daolio

Hamburg – novembre 2005 . Un evento d’eccezione: la prima registrazione assoluta, integrale, di un grande melodramma barocco “ Alarico il Baltha, cioè l’Audace, Rè de Gothi ” (München, 18 gennaio 1687), libretto di Luigi Orlandi, musica di uno dei massimi compositori di tutti i tempi, Agostino Steffani (1654-1728). L’occasione è fornita dal 350° anniversario della nascita del compositore (la registrazione è del 2004), originario di Castelfranco Veneto, ma vissuto tra Venezia, Roma e la Germania, prima a München, poi a Hannover, dove divenne il massimo compositore dell’epoca immediatamente precedente Händel, alto prelato, diplomatico, rettore dell’Università di Heidelberg, amico di Leibniz, e protettore proprio del giovane Händel, che gli dovette la carriera, perlomeno agli inizi.

Molti studiosi novecenteschi e contemporanei, dal grande Hugo Riemann a Colin Timms, sono concordi nel riconoscere la grandezza di Steffani, e la registrazione di cui scriviamo ce la conferma. Voluta e prodotta da Luca Casagrande per il gruppo discografico italo-tedesco Centaurus, già nel 1997, quest’opera è stata, finalmente, realizzata su disco, in Italia, grazie a un giovane professionista di talento notevole: Luca Casagrande, che, nell’opera, disimpegna anche il ruolo di Pisone, alla produzione e alla direzione artistica. Al solito, quando si dà a giovani professionisti capaci la possibilità di esprimersi, si aprono squarci luminosi, che fanno palesemente intendere quanto migliore sarebbe l’attuale realtà musicale, quando affidata a musicisti veri, soprattutto competenti, e sottratta alle grinfie di dinosauri che, per l’appunto, hanno fatto il loro tempo, o di rampanti figure di pseudo-musicologi e pseudo-discografici attenti esclusivamente al proprio vantaggio personale, e ad una peregrina idea di mercato, che, lo vediamo tutti, sta portando la musica (e la discografia) allo sfacelo. Quest’edizione italiana di “Alarico”, ha colto molti di sorpresa (e, chi ne ha realizzata la portata, crediamo abbia provato altro, oltre la sorpresa) e, pare, batte sul tempo la realizzazione di un’edizione pensata da René Jacobs. Diciamo subito che, di là dalla bellezza della musica di Steffani e dagl’innegabili pregi della registrazione, tra cui l’impegno del produttore e della direzione, e, non ultimo, l’intento divulgativo, a noi, questo lavoro non pare un esempio di rigore stilistico assoluto. Intendiamoci, le scelte della direzione sono chiare, anche se non sempre realizzate compiutamente, e le performance dei cantanti per lo più puntuali. Nel complesso, si tratta di un lavoro di buon respiro, espressivo, colorato (anche se avrebbe potuto esserlo di più, e, in alcuni punti, con maggior finezza). Inoltre, ci libera da diversi incubi legati all’ascolto, quasi sempre problematico, del melodramma barocco. Per esempio, quello di tempi troppo stretti, asfittici, che danno luogo a letture meccaniche, più che ad interpretazioni, o quello dell’utilizzo delle inascoltabili, con pochissime eccezioni, voci di falsettista.

“La scelta delle voci cui affidare gli otto personaggi di quest’opera è stata indubbiamente fortunata” afferma Casagrande. “È stato difficilissimo radunare otto giovani cantanti ‘coraggiosi’, ognuno in grado di caratterizzare il personaggio affidatogli. Ai cantanti scelti per ‘Alarico’ si è obiettivamente chiesto molto, lo stile di Steffani non è dei più facili, né la preparazione belcantistica richiesta delle più usuali. La direzione è dovuta scendere anche a qualche compromesso, inutile nasconderlo. Le voci scelte per quest’opera, sono, comunque, ognuna a proprio modo, ed entro i propri limiti tecnico-interpretativi, tutte ricche, mosse, ampie, naturalmente vibranti e, soprattutto, teatrali, in modo da poter rispondere più o meno agevolmente alle numerose sfide di cui Steffani dissemina questo suo melodramma”.

Rodolfo Celletti, il musicologo italiano scomparso di recente, scriveva, nel suo saggio “Storia del Belcanto” (Discanto Ed., Fiesole, 1983), che Steffani “ha come traguardo di fondo melodie dal disegno vario e mosso, che attestano il progresso tecnico attraverso la capacità degli esecutori di sostenere tessiture, che sono probabilmente le più elevate che s’incontrino fra la fine dei Seicento e i primi del Settecento”, sottolineando in pari tempo una delle caratteristiche dello stile vocale di Steffani: il canto teso e vigoroso, che si traduce, per esempio, in molti recitativi, in “incisi declamatòri che portano la voce su alte tessiture … che non di rado raggiungono note per l’epoca molto acute”.

Il personaggio che dà il titolo all’opera, Alarico, è stato affidato ad un mezzosoprano donna, non ad un falsettista, per l’appunto. Lo stesso dicasi per il personaggio di Honorio. Siamo assolutamente d’accordo con questo genere di scelta. Dubitiamo, tra l’altro, che un falsettista d’oggi, a parte il falso storico cui darebbe luogo, possa affrontare i ruoli belcantistici di Steffani, difficili anche per voci femminili, che non siano estremamente duttili, ben addestrate al canto vocalizzato, e non sappiano passare dal declamato teso ed energico, alle vorticose agilità di forza delle arie di bravura; dall’abbandono patetico in cui estenuare la voce, al canto di grazia, a quello “a fior di labbro”. E i falsettisti di oggi, con l’eccezione, forse, di Andreas Scholl e rarissimi altri, sono ugole alquanto grame. Stefania Maiardi, mezzosoprano di mezzi espressivi e grinta non comuni, e di voce di notevole volume e timbro penetrante, alle prese con una parte di tessitura acuta, ci regala un Alarico leggermente meno “brillante seduttore” rispetto a quanto il libretto e la musica, in apparenza, suggeriscano: non, dunque, un dongiovanni, che si riscopre sovrano solo in rare occasioni, ma un re che sceglie deliberatamente di esibire un atteggiamento aristocraticamente leggero, distaccato, noncurante, all’apparenza superficiale e frivolo, tutto preso dai giochi cortigiani di una Roma decadente, ma che non perde mai d’occhio la situazione politica e il proprio primato di re barbaro ora ostaggio-ospite di Roma, ora occupante in armi la Città Eterna. E non dimentica mai d’essere, prima di tutto, un capo guerriero, capace d’atroci vendette e dei più alti atti di clemenza. Un uomo che, di là dal proprio ruolo politico, sa anche amare, da re, e lo dimostra nel finale dell’opera. Maiardi colpisce immediatamente per l’entrata fulminea a circa metà del I Atto, sfoggiando da subito una voce androgina dal mordente molto incisivo. Il colore, inizialmente piuttosto chiaro, diventa già nella seconda aria scuro e vellutato, quasi cupo nelle arie “di battaglia”, “sdegno”, “vendetta”, In queste arie, per lo più Allegri, le agilità di bravura di Maiardi non sono pulitissime, e gli acuti sono ora sfolgoranti, ora meno, ma l’energia e la totale assenza di compromessi suppliscono quasi sempre alla mancanza di scioltezza e disinvoltura. Il mezzosoprano, invece, eccelle nelle arie di genere grazioso, in particolare Per Catena un Crin ch’è d’Oro , Qui ti voglio o mio Tesoro , Pazienza mio Core e Bianco Seno, Luci nere, che interpreta con vera maestria, soprattutto nel filare gli acuti, alternando tensione a flautata dolcezza, mai melensa. Nei recitativi è solenne, regale, estremamente incisiva. Notevoli tutti quelli del III Atto, in particolare Sire! Che rechi , con il Pisone scultoreo di Luca Casagrande. Maiardi, in definitiva, disegna piuttosto compiutamente un personaggio credibile.

Uno dei personaggi che ci ha più colpiti, sia per la complessità e l’ampiezza del ruolo, enormemente impegnativo – quindici arie e molti recitativi -, sia per le fin troppo palesi possibilità d’approfondimento psicologico che offre all’interprete, è quello di Sabina, soprano, “primadonna” e “amorosa” dell’opera. Sabina è qui interpretata da Maria Carla Curìa, soprano lirico d’agilità, di voce vellutata, con un registro acuto saldo, a tratti metallico e penetrante. Curìa è capace d’ottime agilità, quasi sempre molto scorrevoli ed espressive, solo qua e là appena percettibilmente inceppate, nettezza negli attacchi, pulizia, fluidità ed incisività nel fraseggio. La sua dizione è perfettamente comprensibile. Lo stile non ha sbavature, di là da qualche trascurabile intemperanza. Curìa conferisce al personaggio di Sabina tutta la vitalità di giovane innamorata fragile e forte al tempo stesso, sincera ed appassionata, che il ruolo richiede, e lo fa con un’autenticità tale da affascinare e commuovere profondamente: la dolce ragazzina apparentemente sottomessa alla volontà paterna e rassegnata ad un matrimonio senz’amore con il generale Stilicone è, in realtà, una ribelle per amore del suo Honorio – il giovane Imperatore Romano che la ricambia con passione struggente – al punto che accetterà di fuggire dalla casa paterna, sottraendosi così ad un destino di figlia obbediente e moglie infelice, destino peraltro inevitabile, in passato, per quasi tutte le giovani donne sacrificate alla politica dei matrimoni d’interesse; è la figlia che affronta coraggiosamente, anche se non senza timori e dubbi, le ire del padre e il profondo disagio all’atto di respingere apertamente un uomo dal padre impostole, e non amato; ed è anche la donna che, sempre per fedeltà al suo ideale amoroso, si rifiuterà esplicitamente ai capricci d’Alarico, che la vorrebbe come amante, e sopporterà stoicamente i colpi che un destino, incerto fino all’ultimo, ha in serbo per lei e il suo amato. Uno dei momenti più alti della commossa ed appassionata interpretazione di Curìa è il bellissimo “lamento” Hor che sola qui resto … Già cominci a farmi piangere , aria che costituisce anche il momento clou di tutta l’opera, in cui, tra arditezze contrappuntistiche e avveniristiche dissonanze, emerge in tutta la sua lancinante tragicità la disperata, angosciata solitudine del personaggio della giovane patrizia romana in balìa d’eventi di portata travalicante, e che non fanno che ostacolare il suo amore, la sua incoercibile spinta ad un’incondizionata totale dedizione. L’interpretazione di Curìa risulta, qui, di lucida, spietata modernità. Forse, una linea di canto più uniforme e un’emissione più a mezza voce avrebbero reso questo lamento ancora più lancinante e stilisticamente aderente. Notevole per abbandono lirico, anche la bellissima aria “di sonno” Palpitanti Sfere Belle .

Honorio, giovane imperatore romano assorto nel proprio amore per Sabina, è il mezzosoprano Lee Ji-Young, dal canto sospiroso, dal bel vibrato intenso, e dalle mezzevoci leggermente velate. Honorio è un ruolo di giovanetto, sostanzialmente privo delle complessità di una Sabina o delle ambiguità di un Alarico. E’ un ruolo d’adolescente sensuale, tenero, intessuto d’arie impregnate di denso, patetico lirismo, quasi tutte musicalmente di prim’ordine, peraltro, e alcune bellissime, come Care Soglie a Voi mi porto , l’aria di sortita del personaggio, Vi lascio del mio Cor Luci adorate , Luci belle ben che nere , l’aria doppia con Sabina Del tuo Volto al bel Sereno , Tornerò Farfalla amante , con il solo cembalo e un ritornello di sapore antico in coda.

Il personaggio, affidato a voce maschile, più interessante dell’opera è Pisone, patrizio romano e padre di Sabina. Lo interpreta, come anticipato sopra, Luca Casagrande, baritono. La parte di Pisone è scritta da Steffani in chiave, appunto, di baritono. La voce di Casagrande è compatta, contenuta nel registro grave, rotonda nel medium , facile e spontanea nel settore acuto. Il colore di fondo che Casagrande riesce a trovare per Pisone è sombre e vellutato, caratterizzato da levità e trasparenza, soprattutto nei frequenti passaggi vocalizzati, e da qualche appena percettibile mordente angolosità. Il colore perfetto, in ogni caso, per tratteggiare una figura d’aristocratico del tardo Impero Romano, rappresentante primo della classe senatoriale, volta alla riconquista del potere, o alla sua salvaguardia, e della restaurazione degli antichi ideali, in una Roma che da tempo non è più res publica , e attraverso un’accorta politica marimoniale, e attraverso la presa del potere militare. Insomma, Pisone rappresenta la classe su cui l’Imperatore stesso fonda il proprio potere assoluto. E’ il difensore dell’idea stessa d’Impero. Un idealista e un realista nel medesimo tempo. Casagrande è, di volta in volta, patrizio dall’atteggiamento autorevole e solenne, politico accorto, leale comandante dell’esercito. Ma Pisone è anche padre, saggio al punto da non perseverare nell’opporsi alla ribellione di una figlia che ama, anche perché consapevole che l’unione tra la figlia Sabina e l’Imperatore Honorio simboleggia il patto tra Senato ed Impero. E il baritono s’intenerisce, ammonisce, soffre, sprona e si commuove alle tempeste emotive ed esistenziali della figlia, senza peraltro mai perdere di vista i propri obiettivi politici. Casagrande padroneggia senza sforzo la parte, vocalmente e interpretativamente, l’emissione è leggera, ma l’effetto è quello di una bella corposità, il canto sempre ben misurato, sicuro e autorevole: dai sussurri cospiratori, soffocati, per non far trapelare i propri disegni matrimoniali su Sabina, in Giovanetta, ch’ogn’Hor pena , alle meditazioni severe e filosofiche, a mezzavoce, sulla decadenza dell’Impero nella bellissima Il Viver è un’Ombra ; dall’energica agilità di bravura in Un’Ombra di Fortuna , alla perfezione, commossa e riflessiva a un tempo, del canto in ritmo puntato in Un Tiranno insuperabile . Il baritono domina tutta la gamma dinamica compresa tra il “pianissimo” e il “mezzoforte”, ma i pochi passaggi richiesti da Steffani in “forte”, sono saldi. L’agilità è molto fluida ed elegante, nessuna singola nota è sottolineata o evidenziata, gli attacchi sono molto netti, a testimoniare la grande confidenza di Casagrande con il canto vocalizzato e in maschera, base tecnica irrinunciabile, ribadiamo, del belcanto. I recitativi sono i meglio cantati dell’opera. A questo proposito, inspiegabile l’omissione, nel III Atto, di due interi recitativi di Pisone, entrambi con Stilicone, tenore. Brani, questi, seppur non lunghissimi, in cui la dizione “a rilievo” di Casagrande avrebbe potuto dare ulteriore contributo all’esito di una prova tra le più riuscite dell’artista.

Le figure di Placidia, Principessa Imperiale, e Semiamira, Regina dei Traci, sono accomunate, in quest’edizione, da un canto piuttosto chiaro e decisamente stilizzato che accentua il carattere aristocratico di queste due figure. La Placidia, di Won Mi-Jung, soprano lirico d’agilità, di voce incantevole, soprattutto nel sicuro e brillante registro acuto, è una sottile donna di potere, sempre leggermente distaccata e ironica. Ma Placidia è anche una donna politica indipendente, coraggiosa e spietata, tenterà di assassinare Alarico e accetterà di buon grado, dopo la minaccia della rovina politica propria e del fratello Honorio, un matrimonio in extremis con l’ex-comandante dell’esercito imperiale, Stilicone. Questa dimensione di drammatica sofferenza manca nella Placidia di Won Mi-Jung, così come manca in parte la dimensione tragica all’intensissimo lamento In Maschera di Pace … Ove mai senza riposo , caratterizzato, peraltro magnificamente, in senso lirico e con una nitida coloratura espressiva. Lo stesso si dica per l’altrettanto intensamente lirica Fuggi pur da questo Petto . Won Mi-Jung risolve, in definitiva, con molta intelligenza e naturalezza una parte forse non nelle sue corde, soprattutto perché non abbastanza acuta, ricorrendo alla musicalità, e facendo man bassa delle proprie risorse tecniche, soprattutto di un’efficace emissione mista delle frequenti frasi in tessitura centrale o grave. Molto belle le puntature acute, soprattutto il do5 della cadenza nell’aria De’ tuoi Pregi , I Atto.

Semiamira è risolta in maniera analoga, con molta misura e una certa attenzione allo stile, da Loretta Liberato, più mezzosoprano che contralto (Semiamira è un contralto puro), che fa chiaramente intendere come la sovrana orientale sia prima di tutto quel “Tracio Sol”, distante ed intangibile, così com’è apostrofata da Placidia nell’alta scena dell’incontro tra le due regine, nel I Atto dell’opera. Ma Semiamira è anche un personaggio dai coloriti vistosi, estremamente sfaccettato, che la sola interiorizzazione, per quanto acuta, non può rendere appieno. Se il canto di Liberato è sublime nella bucolica Placidette belle Aurette e nella triste aria “di catene” Io nacqui sfortunata , entrambe caratterizzate da articolazioni di vocali e consonanti “a fior di labbro”, che restituiscono una Semiamira intimamente fragile e vulnerabile, quasi una fanciulla, innocente e sognante (in particolare, Io nacqui sfortunata è un’autentica rêverie ), e nel singolarissimo Duetto Care Fiamme , – in cui il patetismo magistrale di Liberato, che qui incupisce il colore vocale, a farci intendere quanto i reali sentimenti della sovrana, in quel frangente, contraddicano quanto ella stessa afferma cantando, è ostacolato dal canto sguaiato del tenore che impersona Stilicone – la Semiamira guerriera e l’amante passionale latitano, tranne forse che in A Vendetta! , in cui, peraltro, il furore vendicativo della Regina dei Traci rimane piuttosto glaciale, ad onta delle nerastre note di petto sfoggiate da Liberato nei passaggi più gravi dell’aria e di un luminoso la4 nella cadenza finale. Semiamira è preda di un’ossessione privata per Alarico, che ama tra abissali alti e bassi, fino alla felice soluzione finale. Nel corso dell’opera, la Regina si schiererà con lui e contro di lui più volte, tenterà un’improbabile liaison con Stilicone, sarà da Alarico più volte umiliata e portata in trionfo, tenterà perfino di assassinarlo, nell’impeto dell’orgoglio ferito e della gelosia, sarà da lui più volte respinta e poi, finalmente, accolta come amata sposa. Quindi, Semiamira non sta certo tutta in una sofferenza e in una melanconia espresse con posata eleganza, tantomeno nei rari momenti di fanciullesca ingenuità. La voce di Liberato, estesa, dal timbro sempre dolce, fascinoso e accattivante, senza l’ombra di gutturalità o durezze, e dal bel colore rosso-dorato, nel complesso suona un po’ trattenuta, a tratti, anche un po’ sbiancata e malsicura nell’appoggio. Tuttavia, a parte qualche discrepanza tonale, il canto scorre, anche nei recitativi. Semmai, manca d’energia e incisività e di quelle potenti scuriture, di quei subitanei scatti passionali e orgogliosi di cupa ira feroce e d’amore negato, che fanno di Semiamira il perfetto contraltare femminile di Alarico e uno dei personaggi per contralto donna più interessanti del teatro barocco.

Buona la caratterizzazione del personaggio dello schiavo Lidoro, figura popolaresca di servo gigione, cinico e grottesco, una sorta di Leporello ante litteram , interpretato da Marco Democratico, basso di voce rotonda, non priva di un certo fascino sensuale, di discrete doti tecniche, forse solo un po’ limitata nel settore acuto e interpuntata, in qualche passaggio, da un vibrato stretto, anch’esso leggermente limitante. La dizione e la scioltezza, nei recitativi, lasciano un po’ a desiderare, rispetto alla grande prontezza esibita nelle arie, in particolare in S’ha un Occhio nero alcuna .

Stilicone, tenore baritonale (praticamente un baritono di oggi) è Guerino Pelaccia.

Rilevanti le prove di Claudio Frigerio al violoncello e di Silvia Capra e Stefano Bragetti ai flauti. Alterna la prova dei violini, che non sembrano molto consapevoli di star partecipando ad un lavoro assolutamente non di routine – e  a tratti scadente il secondo violino.

La grafica di Reinaldo Ferro è sobria e di buon gusto, originale ed ironica.

Ottimo, nelle intenzioni, il libretto, stampato però con qualche refuso di troppo, che riporta, tra l’altro, per intero, tutto il testo dell’opera, segna tutti i tagli apportati ai recitativi, e segnala quasi tutte le difformità tra l’edizione manoscritta di Schwerin, quella di Wien e il libretto a stampa di München.

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