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“Serenata”. Luca Casagrande e le fluide melodie di Giovanni Battista Bassani

di Ilaria Daolio.

Milano, maggio 2007. Della vita di Giovanni Battista Bassani si sa pochissimo, quasi nulla. Non è stata pubblicata, ad oggi, alcuna biografia sistematica, meno che mai romanzata. Si sa che era di origini probabilmente padovane, però non se ne conosce la data di nascita, che fu a lungo a Ferrara come violinista e poi maestro di cappella all’Accademia della Morte, che poi fu alla prestigiosa Accademia Filarmonica di Bologna, e che, a Bologna, appunto, pubblicò in pratica tutta la sua produzione musicale, dalla famosa op. I per violino, alle raccolte di cantate, moltissime, tra il 1680 e i primi del Settecento, musica sacra e moltissimi melodrammi. Insomma, si sa per certo che Bassani fu una delle grandi personalità musicali del proprio tempo, ma niente di più, in sostanza. Le sue cantate, in particolare, hanno come carattere distintivo la fluidità, la scorrevolezza, l’apparente naturalezza, frutto emblematico delle istanze dell’epoca arcadico-razionalista, che si proponeva di superare gli eccessi del Barocco.
Luca Casagrande pubblica Serenata, una raccolta di cantate di Bassani, alcune con testi di Snodelli e Laurini, mai registrate e pubblicate in CD in epoca moderna. Questa è l’unica edizione discografica esistente delle cantate di quest’autore. Il che, già di per sé è un merito notevole, considerando che Bassani non fu un Bonporti qualsiasi, insomma, un “minore”. Ricoprì, anzi, le cariche musicali più prestigiose, a Ferrara e a Bologna, per chiudere vita e carriera presso la celeberrima Cappella di S. Maria Maggiore di Bergamo, uno dei nodi cruciali della cultura musicale (e non solo) europea del Seicento e del primo Settecento. Insomma, ai suoi tempi fu realmente famoso, come testimoniano anche molti suoi contemporanei. Il fatto che noi oggi ne sappiamo poco può dipendere dal fatto che molti documenti sul compositore sono andati distrutti, o smarriti. Abbiamo, invece, praticamente quasi tutta la sua opera.
Le cantate del CD sono quasi tutte per basso-baritono, registrate nella tonalità originale, a parte Serenata, che è per tenore (o soprano. Ricordiamo che al Teatro alla Scala, in un rarissimo récital, il grandissimo e prematuramente scomparso soprano americano Arleen Augér, verso, negli Anni Ottanta, ne diede una versione che chi l’ha sentita ha definito “sublime”. Fu la Augér una delle poche ad incentivare l’interpretazione di quest’autore in concerto, e chissà che i suoi discografici non ne avessero in progetto la registrazione), e Là dove un ciel sereno, originariamente per contralto, o contraltista.
La voce di Luca Casagrande qui, camaleonticamente, come suo costume, si adatta alla tessitura centralizzante, tendente al grave, e si fa piena e rotonda, più scura del solito, ma sempre attenta a rendere la scorrevolezza degli Allegri, dei Vivaci, dei Presto e dei Prestissimo, indicati da Bassani stesso nelle edizioni a stampa dell’epoca. In questo senso, i tempi veloci di queste cantate sono resi alla perfezione da Filippo Emanuele Ravizza, Maestro al cembalo, e Marcello Rosa al violoncello. Casagrande mostra una grande capacità di stare al gioco, affrontando con estrema disinvoltura tempi per lui non consueti, e non facili da rendere per qualsiasi voce maschile grave.
Casagrande effettua un’operazione di drammatizzazione delle partiture, innanzi tutto ricorrendo vieppiù ad una puntigliosa intensità nel fraseggio e varietà d’accento nei recitativi. Non un solo passo recitato è qui trascurato, per quanto i recitativi, in Bassani, occupino poco spazio, e questa è una delle caratteristiche del baritono fin dall’inizio della sua carriera, anzi, già negli anni degli studi. In questi recitativi, tuttavia, Casagrande diversifica tra loro le singole frasi quanto mai aveva fatto in precedenza, introduce per ogni frase, per ogni parola, quasi, una sfumatura differente ed appropriata, alternando dolcezze ed asperità sonore, tinte oscure e luminosità a fior di labbro, in totale sprezzo delle convenzioni sul “bel suono”, ma nell’assoluto rispetto delle regole del “belcanto” – che non si riduce, come ormai sappiamo bene, ad un susseguirsi di note correttamente emesse, ma secondo cui il bello, la forma piacevole, il “bel suono”, coincidono con l’espressivo – e così riuscendo, quanto non era riuscito nemmeno nei lavori discografici dedicati a Steffani, Cesti e Marcello, a rendere recitativi ed ariosi estremamente vividi, espressivi, attuali, comprensibili, interessanti, a riscattarli da ogni rischio di noia e a toglierne la polvere di secoli. Sappiamo infatti molto bene, purtroppo, quanto l’uditore contemporaneo sia insofferente ai recitativi, che invece dovrebbero essere ascoltati attentamente quanto le arie, perché saperli cantare davvero bene è di pochissimi. I mezzi che permettono a Casagrande di cantare magistralmente qualsiasi recitativo stanno senza dubbio in un grande istinto per l’accento teatrale, eloquente senza inutili effetti, nell’“intelligenza della parola detta”, come ebbe a scrivere in proposito Paolo Terni, e nella perfetta assimilazione del concetto di “sprezzatura” cioè libertà ritmica e disinvoltura nell’arte di fraseggiare. Oltre ad un gusto senza dubbio superiore. Sappiamo per certo che nessuno dei grandi Maestri che hanno aiutato il baritono ad impadronirsi dell’arte del canto, ha mai dovuto insegnargli come affrontare un recitativo. Casagrande si spinge oltre, introducendo cenni di asprezze sonore anche in molte arie, in particolare in alcuni passi in tessitura grave: qui molte note suonano talmente prosciugate e scabre da suscitare l’impressione del tragico, e sono, comunque, generalmente seguite da risalite verso centri ed acuti di grande pienezza e morbidezza. Tecnicamente questo è lecito quanto interpretativamente: pensiamo, senza andare troppo lontano, alla vocalità di Giuseppe Valdengo, il grande baritono toscaniniano, recentemente ascoltato, perché apparso nelle commemorazioni televisive del Maestro parmense. O, se vogliamo risalire all’inizio del Novecento, pensiamo al grande baritono tedesco Schlusnus, o all’altrettanto grande, e successivo, Gerard Hüsch. Inoltre, notiamo che, quando Casagrande scende a toccare gli estremi gravi nel corso di passi d’agilità veloce, le note suonano pulite, rotonde, splendidamente timbrate e seducenti, di gran classe, mentre quando le raggiunge “di sbalzo”, cioè con franca energia, suonano asciutte, quasi secche, ridotte a puro metallo. Ma anche alcuni attacchi nel medium della voce, nel recitativo di Là dove un ciel sereno, ad esempio, hanno inflessioni metalliche, volute, per aprire il sipario su una scena che di pastorale o bucolico ha solo l’apparenza, per superare la convenzione arcadica dell’amore infelice tra i due pastorelli protagonisti della cantata, e scavare nella profondità di sentimenti che Casagrande pretende, giustamente, profondi e strazianti, non ridotti a sentimentalismi di maniera. Ugualmente, molti passi delle arie di Serenata, di Ti lascio ò cor ingrato, o Son costretto ad adorarvi presentano la caratteristica di passaggi resi drammatici dall’interpretazione ricca di mordente. Il meglio di sé, riuscendo a riunire le pienezze e le morbidezze del canto espanso al senso del dramma, Casagrande lo dà nei passi cadenzati: tutte le cadenze, non poche, introdotte dal Maestro Ravizza, che è anche direttore artistico di questa produzione, nei finali di molte arie, sono rigorosamente “all’italiana”, come scriveva, o meglio prescriveva, Tosi nelle sue “Opinioni de’ cantori antichi e moderni” (1709): non lunghe, di gusto sorvegliato e con il trillo finale. Solo nella sarcastica Il musico svogliato, parodia sprezzante del divo cialtrone, si può ascoltare una cadenza paradossale, che finisce con un comico “Oh! Sì”. Parodia impietosa, questa, dei divi, appunto, del melodramma dell’epoca di Bassani, primedonne e primi uomini capricciosi, esibizionisti e “svogliati”, che ne detenevano il dominio incontrastato. Ma anche parodia del modo di concludere le cadenze legato alla tradizione teatrale italiana fino a tutti gli Anni Cinquanta, anni di divismi ed atletismi canori inutili, quanto dannosi. Nella seconda parte del CD, dopo due bellissime ariette di sapore vagamente händeliano, Casagrande si cimenta in cantate più da basso che da baritono, riuscendo ad ottenere sonorità profonde, cave, ben scure, risonanti ed altamente drammatiche, non aliene da screziature d’acciaio. Il baritono affronta temerariamente ariosi dai vorticosi vocalizzi in tempo velocissimo, tutti in tessitura grave, sui quali ha quasi sempre la meglio, e riesce ad instaurare un’atmosfera molto intima, ma non confidenziale, da pensieri ed emozioni espressi come nel cupo di una stanza, tra pareti di spesso velluto morello. Momenti di canto a mezzavoce gettano improvvisi obliqui fasci di luce su tanta lussureggiante penombra.
Nel senso della drammatizzazione e della varietà si muovono senza indecisioni anche i musicisti: Filippo Emanuele Ravizza, riconosciuto clavicembalista milanese, ex-allievo, Uitvoerend Musicus, ad Amsterdam, di Bob van Asperen, che qui si conferma continuista d’intelligentissima, essenziale musicalità, di raro prestigio, il migliore con cui Casagrande abbia collaborato, e la robusta performance al violoncello di Marcello Rosa., che trae dal suo strumento suoni di notevole pienezza.
Splendida la copertina del digifile, che riproduce l’Allegoria dell’aria di Rosalba Carriera, ecceslsa pittrice veneziana, di poco successiva all’epoca di Bassani.

Notevolmente elegante la grafica di Reinaldo Ferro. Un CD da non perdere.

Ilaria Daolio

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