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Il lungo viaggio diuna voce solitaria

Intervista al baritono Luca Casagrande

Di Ilaria Daolio

Prima di entrare nel vivo del colloquio con Luca Casagrande, musicista e baritono, milanese per educazione musicale, internazionale per esperienze umane, artistiche e per mente, una fulminea correzione di quanto pubblicato su “TrentinoMese” dello scorso maggio: il titolo corretto del mio articolo sul concerto “W. A. Mozart. Gli anni e le opere della maturità”, cui partecipava anche Casagrande in veste di ideatore e interprete, era “Mozart di là dalla tradizione”, non “della”. Tengo a questa correzione, non solo per motivi grammaticali.

Luca Casagrande è un musicista, prima ancora di essere un cantante e un attore, che può ricordare, in un certo senso, la figura solitaria, senza alcun vanto d’appartenenza a questo o a quel “clan” d’artisti, del fiorentino Jacopo Peri (1561-1633). Come questi, Casagrande ha carattere d’interprete piuttosto dolce, incline alla meditazione, al sospiro e all’accentazione sofferta. Diversamente da questi, il suo canto conosce improvvise impennate eroiche e un’autentica propensione al genere sublime-tragico. Casagrande ha sempre percorso strade impervie, spesso non condivise neppure dagli amici e da una certa razza di colleghi, certo guardate con il sospetto, che nasce dall’ignoranza, a volte anche con l’ostilità, che nasce dall’invidia di chi amico non è o di chi pensa alla figura del ‘cantante’ come ad una macchina da soldi. Quindi, giù di melodie trite, ma rassicuranti, perché conosciute, che non spalancano porte sull’inquietante ignoto, né scuotono le menti piccolo-borghesi dei ‘routiniers’ dalla pigrizia loro congenita, menti cui è consentita tutt’al più qualche puntata sul terreno della nostalgia. Niente di tutto questo tocca, né ha mai toccato, Casagrande.

La ricerca e la proposta al pubblico di materiale musicale inedito del Sei-Settecento italiano, o il riuscire a forgiarsi uno stile di canto sobrio e asciutto, del tutto incurante d’ogni atletismo vocale e totalmente sordo alle tentazioni dell’esibizionismo, eredità, questa, di generazioni e generazioni d’urlatori di ogni tempo e luogo: questo è Casagrande, e altro ancora.

“Per me nel canto riveste importanza fondamentale la ‘dinamica sfumata’, la capacità, cioè, dell’interprete di sfumare, appunto, modulare e smorzare i suoni e di attingere ad una tavolozza pressoché inesauribile di ‘colori’ vocali, a fini espressivi. Il canto è un fatto di tecnica e immaginazione. Di cervello, insomma. Bellezza fisica, volume o potenza di una voce non hanno significato alcuno di per sé.”
Ad ascoltare molti dei giovani cantanti d’oggi, non sembrerebbe tanto facile mettere in pratica la “dinamica sfumata”.
“E’ solo una questione di studio. Oggi si studia poco. Per questo si sentono, anche nei grandi teatri, semi-dilettanti, o semi-professionisti, senza le necessarie basi tecniche. La proverbiale avidità del cantante e i giochi d’agenzia fanno il resto. Trovare un maestro con le idee chiare è praticamente impossibile, anche perché spesso è l’allievo a non avere le idee chiare su se stesso e le proprie possibilità. Per esperienza, posso affermare che un cantante dovrebbe imparare ad essere maestro di se stesso.”

Secondo te, dunque, per un cantante impadronitosi della tecnica tutto sta nel riuscire a crearsi stile e misura.
“Interpretazione è sempre sinonimo di creazione, nel canto: ri-creare, analizzare e approfondire in uno sforzo continuo. Ecco, un buon maestro potrebbe essere d’aiuto, ad esempio, nel cercare musica che il cantante possa illuminare e nel trovare la strada per riuscirvi.”

Quanto spesso pensi di riuscire a rendere credibile quello che interpreti?
“Mi piacerebbe poter dire ‘sempre’, ma non è così. Per me cantare è una sorta di ‘work in progress’, in ogni caso, e per di più una parte di me non riesce a sottrarsi a un incessante autoesame.”

Come ho avuto già occasione di rimarcare in altri articoli, l’iter di Casagrande è stato ed è lungo, nient’affatto facile, ma ora – già da qualche tempo, per la verità – sembra avviato verso un’interessante fase di maturità vocale ed espressiva. Dalla sua il baritono ha, tra l’altro, una sensibilità estetica realmente formidabile, un buongusto decisamente superiore e uno stile molto elegante, spesso caratterizzato da stimolanti connotazioni avveniristiche. Inoltre, una rara capacità di cimentarsi in repertori nei quali gli “affetti” si misurano con il contagocce.

“Mozart mi offre la possibilità di dosare e centellinare i suoni, i colori e le emozioni come più mi è congeniale e rimane il mio compositore d’elezione. Ma tutto il Settecento potrebbe fare al mio caso, e il tardo Seicento, che ritengo estremamente stimolante: si tratta del momento storico, come afferma Terni, in cui la musica prende coscienza di sé e del proprio significato, si fa complessa, ricca, profondamente inquieta, provocatoria, altro che parrucche, vezzi, ninnoli e fronzoli. Poco più di un secolo dopo, Rossini, che segna la ‘summa’ del belcanto, offrirebbe a un baritono ruoli straordinari. Rossini ha segnato i miei esordi teatrali, ma non è autore da affidare a voci inesperte o a cantanti che abbiano poco studio alle spalle.”

A proposito di studio: tu passi per essere un cantante molto studioso. Un ricercatore, in pratica.
“Di là dalla disciplina, cui mi sottopongo quotidianamente, credo sia fondamentale acquisire un ‘sentimento puro e corretto’, come scrive Garcia nel suo ‘Trattato completo dell’arte del canto’, della musica in generale. La ricerca nasce da una mia esigenza di trovare spazi musicali inconsueti, inesplorati. In questi ultimi anni mi sono dedicato sostanzialmente ad autori italiani del XVII e del XVIII sec. Ma ho intenzione di analizzare anche compositori di epoche successive.”

Parte dell’attività di ricerca storico-musicale e musicologia di Luca Casagrande è documentata da una produzione discografica, che ha interessato gli appassionati ma, dato di fatto estremamente importante nel nostro sistema, è stata commercialmente un successo.

“Il mercato della musica barocca è limitatissimo, per cui non si parla certo di milioni di copie vendute. Naturalmente, se gli spazi all’interno del mercato discografico fossero più ampi, i CD costassero meno e la distribuzione non fosse una realtà peregrina, la vendita, e quindi la diffusione e la conoscenza della musica del periodo ‘pre-classico’ smetterebbero di essere un fenomeno per iniziati.”

Torniamo al repertorio: quello comunemente detto “grande” si identifica oggi con l’opera del secondo Ottocento e del primo Novecento: dalla trilogia verdiana alla “Turandot”, o poco oltre.
“Amo molto Verdi, che ho studiato – solo studiato – per anni. Non lo posso e non lo voglio cantare, adesso, ma nutro una vera passione per ‘Macbeth’ , per ‘Simon Boccanegra’, per i personaggi di Jago, nell’ ‘Otello’ e, all’opposto, di Rodrigo nel ‘Don Carlos’. Non è tanto la mancanza della simmetria architettonica, del tratteggio classico, di coesione melodica e del dosaggio del rapporto strumenti-voci, caratteristica dei romantici italiani a Verdi precedenti, a pesarmi. Si sa poi, che anche il pezzo chiuso verdiano presenta spesso un’apparente mancanza di continuità, un susseguirsi di frasi ora lunghe, ora brevi, ora distese, ora concitate. Anzi. Questo è il ‘canto scenico’, che cerca di rifarsi al parlato. No, in Verdi sono molto frequenti i momenti, in cui l’orchestra procede all’unisono con i cantanti, costringendoli a forzare il suono per non essere coperti o sommersi. E poi, il carattere marziale e patriottico di molte opere giovanili del ‘compositore col casco’, come lo definiva Rossini, richiede un canto stentoreo, piuttosto defatigante. Inoltre, Verdi compone melodie per la voce, che insistono su zone molto delicate della stessa, quelle dette ‘di passaggio’ da un registro all’altro e costringe quasi sempre ad un ritmo respiratorio irregolare. Rimane il fatto che quello del baritono è il registro vocale preferito da Verdi e che, comunque, fin dalle prime opere, il compositore bussetano richiede spessissimo agli interpreti piani, pianissimi e smorzature. Per quanto riguarda Puccini, attenendoci ai due grandi italiani del secondo Ottocento, mi piace, ma non ha scritto molto per baritoni del mio tipo. Per me non esiste un ‘grande repertorio’, non nel senso comunemente inteso. Amo la musica di Bellini, che ha scritto per lo meno due bellissimi ruoli per baritono: uno ne ‘I Puritani’ e uno ne ‘La straniera’. Una delle figure di baritono ottocentesco che più mi impressiona è quella di Giorgio Roncoli (Milano 1810 – Madrid 1890. N.d.R.). Ronconi è stato probabilmente il baritono più importante e innovativo del primo Ottocento, protagonista per una decina d’anni di una mezza dozzina di opere di Gaetano Donizetti, da ‘Il furioso all’isola di Santo Domingo’ a ‘Maria di Rohan’. Fu anche protagonista di ‘Nabucodonosor’ di Verdi, quindi testimone di un’ importante fase di passaggio della vocalità ottocentesca. Secondo le cronache dell’epoca, e stando alle partiture, Ronconi aveva voce tenoreggiante, acuti facili, ma soprattutto era un attore di prim’ordine. Un vero baritono romantico, appartenente a un mondo e a una tradizione musicali e vocali scomparsi e che bisognerebbe tentare di recuperare.”

Quali credi siano state le esperienze, teatrali e non, che hanno più contribuito alla tua formazione “professionale” e quelle per te più significative, nel corso dei tuoi sette anni di carriera?
“Gli anni di ‘carriera’ (bruttissimo termine), sono più di sette. Sette anni fa ho debuttato in teatro, a Milano, ma ho iniziato a cantare – pagato – meno che ventenne. Non essendo, come miei moltissimi colleghi, un carrierista, non ho mai pensato alla mia attività in termini di ‘carriera’: al contrario, tendo a defilarmi, per salvaguardare il mio equilibrio mentale e tendo a non cantare troppo, per salvaguardare quello vocale. Ho personalmente assistito alla fine precoce di molti miei colleghi, anche bravissimi, ma che sono andati troppo oltre le proprie possibilità. ‘Mass’ di Bernstein, nel ’92, in prima italiana, al Teatro Smeraldo di Milano e ‘Die Zauberflöte’ di Mozart, Berlino, nel ’97 – ’98, sono state le esperienze teatrali migliori, con i migliori direttori che ho avuto, il cast migliore con cui ho lavorato, l’ambiente, insomma, più favorevole che abbia incontrato. Poi potrei citare molte esperienze teatrali soprattutto tedesche (non canto in teatro, in Italia, da anni): le migliori sono state ‘Don Giovanni’ e ‘Le nozze di Figaro’ di Mozart, ‘Tannhäuser’ di Wagner, ‘I Puritani’ di Bellini e ‘La favorite’ di Donizetti, e poi melodrammi di età barocca, da ‘Il trionfo dell’onore’ di Scarlatti a ‘Marco Aurelio’ e ‘L’Alarico’ di Steffani. Salverei anche molti dei concerti da camera sulla cantata barocca, che ho tenuto in molte città in tutt’ Europa, tra il ’94 e oggi, con lo ‘Scarlatti Camera Ensemble’ e altre formazioni cameristiche. Non amo affatto i concerti operistici, ma quelli che ho dato, con e senza orchestra, mi hanno aiutato ad approfondire momenti di opere, che poi mi sono risultati di più agevole comprensione in teatro. E poi c’è la musica sacra, J. S. Bach, W. A. Mozart, ancora G. F. Händel…Per citare gli autori che frequento maggiormente.”

Voglio prendere in prestito una domanda di Carlo Majer, Direttore Artistico del Teatro di S. Carlo di Napoli, già conduttore de “I fantasmi dell’opera”, trasmissione radiofonica di Rai-RadioTre, cui tu hai preso parte, come ospite, nel novembre ‘98: che cosa ami e cosa odi del mondo dell’opera?
“Il mondo dell’opera è, ovunque, un mondo difficile, ma in Italia si raggiungono livelli insondabili di meschinità e miseria morale, intellettuale e materiale. E’ pur vero che non canto praticamente più in Italia, ma ho amici che lo fanno e i loro resoconti sono scoraggianti. Del teatro d’opera amo le situazioni, in cui si possano sperimentare soluzioni nuove, sia musicali che sceniche. Non tanto per il gusto della novità fine a se stessa, quanto perché credo che il teatro d’opera vada svecchiato, ciò che in gran parte del mondo si fa, ancora poco in Italia. Detesto chi si occupa, direttamente o indirettamente di musica, senza esserne competente: dagli ‘addetti ai lavori’ incapaci, agli assessori ignoranti, ai cattivi amministratori. Trento, visto che adesso siamo in Trentino, è un esempio eclatante di pessima amministrazione, in fatto di musica.”

Passiamo ad argomenti meno “spinosi”. Che musica ascolti e che ascoltatore sei?
“Molta musica strumentale barocca: molto Tartini (Giuseppe, Pirano d’Istria 1692 – Padova 1770, N.d.R.), ad esempio, che tra l’altro è stato un grande teorico, purtroppo non ristampato. L’ideologia musicale di Tartini è fondamentale per capire la differenza tra la musica italiana e quella francese nel periodo a cavallo tra Sei e Settecento. Il compositore istriano teorizza un’estrema morbidezza ritmica e melodica, che lo ‘charme’ della musica italiana, come afferma il Prof. Terni. Mi piacciono molto anche Arcangelo Corelli (Fusignano 1653 – Roma 1713, N.d.R.), Händel e Rameau (1683 – 1764), accanto a una per me recente scoperta: J.-F. Rébel (francese, allievo di Lully, vissuto tra il 1676 e il 1747. N.d.R.). In questo periodo ho ripreso a sentire ‘mélodies’ francesi, da Berlioz a Debussy, da Ravel a Fauré a Hahn, del quale ammiro molto le ‘lezioni’ di canto, e poi Satie, Ibert, Poulenc, Honegger. Amo la leggerezza dei ‘lieder’ di Mozart, ma anche la tormentata complessità di quelli di Mahler. Mi piace molto Chopin, soprattutto i valzer, e anche Liszt e, ancora, tutto il pianismo di Debussy, Ravel, molti lavori di Berg e di Bartòk, e molto Wagner, del quale ritengo inarrivabile ‘Tristan und Isolde’. Tra i compositori contemporanei mi piacciono in modo particolare Nyman, Adams e Nagano, ma anche un caso singolare di musicista-interprete-autrice-produttrice e quant’altro, inglese, passata dal rock fine anni Settanta, prodotto da Dave Gilmour dei ‘Pink Floyd’, ad un’affascinante elaborazione della musica ‘d’avanguardia’: Kate Bush, idolatrata in Gran Bretagna, per le sue rarissime ‘performances’, tutte d’altissimo livello. Sono un fruitore di musica molto partecipe, benché non sia facile ad entusiasmarmi, non ami riempirmi la casa di dischi e non sia un assiduo frequentatore di concerti e, ora, nemmeno più di teatri. Mi limito all’indispensabile.”

Devo dedurne che ascolti poca musica operistica?
“Meno di un tempo. Naturalmente ascolto molto Mozart: mi piacciono molto le sue opere dirette da Böhm. Trovo interessante McGegan quando dirige Händel, le direzioni wagneriane di Furtwängler, quelle verdiane e rossiniane di Solti e Abbado, mentre non riesco a trovare ancora una direzione convincente delle opere di Bellini, e il solo Gavazzeni mi sembrava, tagli a parte, l’unico direttore in grado di comprendere Donizetti alla perfezione. Per quanto riguarda i cantanti, il discorso si fa delicato. Rossini pare sia l’autore di una ‘boutade’, secondo la quale i cantanti si dividono in tre categorie: quelli che hanno la voce ma non sanno cantare, quelli che la voce non l’hanno ma sanno cantare e quelli che non hanno voce e non sanno neppure cantare. Premesso che conosco personalmente rappresentanti anche famosi di tutte e tre le categorie, prediligo le voci rotonde, non troppo acute e non mi fanno nessuna impressione le voci voluminose. Ma, di là da queste considerazioni, di un cantante apprezzo soprattutto la musicalità, l’intelligenza della parola detta, la capacità, come diceva Bellini a proposito di Giuditta Pasta (probabilmente la più grande cantante del primo Ottocento, Saronno 1797 – Blevio 1865, N.d.R.) di esprimere ‘sentimenti delicati’. A parte le antesignane della rinascita del belcanto, Callas e Sutherland, la mia voce preferita è quella del soprano Arleen Augér, californiana, prematuramente scomparsa qualche anno fa, grandissima interprete di Händel, Bach, Haydn e Mozart. Tra i baritoni, con i dovuti distinguo, Schlußnuß, Fischer-Dieskau e Souzay. Trovo invece intollerabili certe prese di posizione estetica, e quindi morale, di alcuni “giovani” baritoni d’oggi, soprattutto italiani: ad esempio, trovo assurdo che un Antoniozzi qualsiasi, bella voce ma interprete del tutto ordinario, parli di Fischer-Dieskau come di un ‘bue mugghiante’.”

Per finire, come in tutte le interviste che si rispettino, impegni e programmi futuri.
“Studiare, studiare, studiare…Non mi piace parlare dei miei programmi, ma posso assicurarti che sono molti e molto articolati. Sarò spesso all’estero, come il solito, ma impegnato in progetti totalmente nuovi per me. Poco in Italia e nulla a Trento, almeno per quest’anno. Giacché ci siamo, vorrei ringraziare tutti i musicisti che hanno collaborato e collaborato ai miei progetti, tutti i colleghi che mi hanno aiutato e sostenuto, i direttori che mi hanno guidato, e il Maestro Alberto Soresina, con cui ho studiato, per quanto mi ha permesso di imparare da lui. E, naturalmente, il pubblico trentino, in particolare quello che ha avuto la bontà di partecipare ai miei concerti in regione.”


Ilaria Daolio
Storia e letteratura del teatro musicale e
Direzione Istituto Monteceneri
Milano.

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